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November 21 2016
10 anni di pace sul confine israelo-libanese e in tutto il Libano meridionale, da sempre una delle zone più calde del mondo, mentre tutto intorno la regione letteralmente va a fuoco. È questo il risultato dello straordinario lavoro di UNIFIL che è stato oggetto di un convegno internazionale la settimana scorsa in ASERI (l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’università Cattolica) in occasione della celebrazione dei suoi 20 anni di attività.
Alla presenza e con l’attiva partecipazione del Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano (già Comandante e Capo Missione di UNIFIL dal 2007 al 2010) e del Magnifico rettore dell’Università cattolica, il professor Franco Anelli, di fronte a 150 studenti, al corpo accademico e al Console generale del Libano, uomini in uniforme e studiosi si sono confrontati per spiegare il successo della più grande missione di pace delle Nazioni Unite, alla quale l’Italia ha massicciamente contribuito fin dalla sua costituzione, fornendo tra l’altro ben tre dei cinque comandanti che si sono fin qui avvicendati alla sua leadership.
Costituita per la prima volta nel 1978, e da allora continuativamente presente nell’area, dove ha pagato un tributo di oltre 200 caduti (facendone la più “sanguinosa” missione delle Nazioni Unite), UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon) ha conosciuto un sostanziale rafforzamento e un’estensione del suo mandato nell’Agosto 2006, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 1701 che pose fine alla “guerra di Luglio”, che nell’arco di 34 giorni aveva causato oltre 1500 morti (in massima parte tra la popolazione civile libanese, più alcune centinaia tra i combattenti di Hezbollah e qualche decina tra i soldati e la popolazione del Nord di Israele) e la distruzione della quasi totalità delle infrastrutture del Paese dei Cedri tra il confine meridionale e la capitale Beirut.
Lo scontro Israele-Hezbollah
Come forse si ricorderà, la guerra era scaturita dall’uccisione e il rapimento dei soldati di una pattuglia militare israeliana da parte di uomini del partito-milizia di Hezbollah lungo il confine dei due Paesi (formalmente in stato di guerra dal 1948). Ne era scaturita un’escalation, fatta di rappresaglie e contro rappresaglie, probabilmente non voluta e prevista da alcuna delle parti in causa, che aveva portato all’invasione israeliana del Libano meridionale (la terza nel corso della storia). Lo scopo di Tshal (le Forze di Difesa Israeliane) era quello di farla finita una volta per tutte con gli attacchi di Hezbollah, oltre che di assestare un duro colpo alla reputazione militare e politica del movimento sciita. A quell’epoca, Hezbollah rappresentava di fatto l’unica autorità politica presente nel Libano meridionale dopo il ritiro unilaterale di Israele dalla zona, occupata in maniera praticamente ininterrotta dal 1982.
Il fallimento del conflitto
Nonostante la brutalità dei combattimenti e la massiccia campagna di indiscriminati bombardamenti aerei, la guerra si sarebbe rivelata un fallimento politico e militare. I lanci di Katyusha dal territorio libanese, la cui cessazione aveva costituito una delle motivazioni dell’invasione terrestre, sarebbero continuati fino al momento dell’armistizio e le forze di Hezbollah avrebbero dimostrato una resilienza e una capacità operativa ben superiore a quanto immaginato dagli altri comandi di Tel Aviv.
Oltre un mese di furiosi combattimenti avevano prodotto una situazione di stallo, dalla quale entrambi i contendenti avevano interesse a uscire. Per Hezbollah, si trattava di capitalizzare politicamente il successo militare: operazione che risultava sempre più difficile a mano a mano che emergeva il nesso di causa-effetto tra lo sconsiderato agguato alla pattuglia israeliana (all’origine del conflitto) e le distruzioni arrecate all’intero Libano dalla reazione dello Stato ebraico. Per Israele, era importante cercare di conseguire, almeno per via diplomatica, quell’obiettivo minimale della garanzia della cessazione di lanci di razzi sull’Alta Galilea che la campagna militare aveva mancato.
La risoluzione 1701
Dalla convergenza degli interessi dei due attori, nacque la Risoluzione 1701, adottata il 12 agosto 2006 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e accettata il giorno seguente dal governo di Beirut, che richiedeva la cessazione immediata delle ostilità e il ritiro delle truppe israeliane dal territorio libanese, accompagnato dal dispiegamento delle truppe di UNIFiL (portate a 15.000 effettivi e dotate di una componente navale, la Maritime Task Force) nel Sud e lungo la linea di armistizio (quella che sarebbe divenuta nota come “Blue Line”).
La Risoluzione prevedeva anche che le Forze Armate Libanesi (LAF) fossero le sole intitolate a portare le armi nella zona (oltre a UNIFIL) e che l’intera zona fosse sigillata rispetto all’ingresso di armi o uomini armati non appartenenti alle LAF. Per perseguire questi obiettivi, UNIFIL avrebbe dovuto prestare la propria assistenza, ove richiesta dalle autorità libanesi, nello spirito della riaffermazione della piena e totale sovranità del Libano sul suo territorio, all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti, al cui rispetto il Consiglio di Sicurezza ribadiva il proprio incondizionato sostegno.
Si trattava di un evidente punto di compromesso, al cui interno era palese l’ambiguità rispetto alla questione del cosiddetto “disarmo di Hezbollah” (organizzazione mai peraltro citata in tutta la lunga e articolata Risoluzione), frutto sia delle diverse posizioni all’interno del Consiglio di Sicurezza sia dell’evoluzione del quadro politico libanese, in quella fase piuttosto fluido rispetto al punto e nel quale la posizione di Hezbollah appariva non così salda.
Ambiguità e contraddizioni
Proprio su tali ambiguità e sulle vere e proprie contraddizioni presenti nel testo della 1701, si è concentrata la relazione di Karim Makdisi, professore di Relazioni Internazionali all’American University di Beirut (la più prestigiosa e antica del Medio Oriente), uno dei maggiori esperti del peacekeeping targato ONU in medio Oriente. Analizzando il testo delle diverse Risoluzioni che hanno avuto per oggetto il Libano nel corso degli anni, Makdisi ha sottolineato il cambio di paradigma che ha caratterizzato la 1701: la più lunga, articolata e contraddittoria di tutte, eppure la sola effettivamente e compiutamente implementata.
Nella ricostruzione del professore libanese, alle origini del cambiamento di framework concettuale che la 1701 dimostra, deve essere collocata la progressiva egemonia dell’idea di “war on terror” come chiave, se non interpretativa, almeno operativa dell’intero disordine mediorientale. In questo senso, il conflitto tra Israele e Libano, soprattutto nella sua fase dominata dal protagonismo di Hezbollah, sarebbe stato inglobato nella dinamica della lotta contro il terrorismo, perdendo le specifiche connotazioni del lungo e irrisolto conflitto arabo-israeliano.
Le contraddizioni interne alla risoluzione, specialmente quelle legate al disarmo delle milizie, ma anche quelle relative alle responsabilità della guerra e alla sproporzione delle reazione israeliana, sarebbero, per un verso, il risultato della tensione tra il quadro concettuale della “guerra al terrorismo” e quello del conflitto arabo-israeliano e, per un altro, l’esito del braccio di ferro interno al Libano tra i sostenitori e gli avversari di Hezbollah. Con questa ambiguità e queste contraddizioni ha evidentemente dovuto fare i conti nella sua postura e nella sua azione UNIFIL che, effettivamente nel corso degli anni ha progressivamente trovato il suo posizionamento e specificato la sua azione: contribuendo ad affermare la ritrovata sovranità del dello Stato libanese sul sud del Paese anche attraverso il rispetto delle decisioni assunte dai diversi esecutivi che si sono succeduti nella capitale libanese.
La dimensione politica della missione
Proprio sulla dimensione politica della missione UNIFIL, e sull’importanza della sua declinazione congiunta rispetto alle specifiche esigenze operative di carattere militare, si è soffermato il generale di brigata Franco Federici, già comandante della Brigata Alpina “Taurinense” e, tra 2015 e 2016, comandante di “Sector West”, una delle due zone in cui è suddivisa l’area di operazioni di UNIFIL, da sempre sotto il comando italiano. Come il generale Federici ha sottolineato, è la natura stessa della multiconfessionale società libanese, il cui pluralismo è rispecchiato e tutelato nell’architettura istituzionale della Repubblica, a rendere il compito di un comandante estremamente complesso e delicato.
Il successo della missione dipende non solo dalla corretta e scrupolosa esecuzione della lettera del mandato assegnato dalla 1701 ad UNIFIL, nel monitoraggio della linea di cessate il fuoco, nel progressivo sminamento dell’area e nella sostegno alle LAF per il controllo del territorio. Molto ha a che fare anche con la capacità di instaurare un corretto e reciprocamente rispettoso rapporto con le popolazioni civili e con le autorità locali, politiche e religiose, affinché le truppe internazionali siano percepite come ospiti che contribuiscono alla stabilità e alla pace della regione e non come una forza occupante o un’autorità alternativa rispetto a quella del governo nazionale.
In questo “the Italian way to lead” è risultato particolarmente apprezzato e di successo, sia per l’aspetto riguardante la capacità di collaborazione rispetto alle LAF, sia per i rapporti cordiali instaurati con la popolazione e con le autorità locali. Nel corso di dieci anni, il sostegno assicurato alle LAF si è configurato con contributi addestrativi che hanno accompagnato le operazioni congiunte di sorveglianza del territorio e con la graduale instaurazione di un rapporto di fiducia, stima e amicizia. Come è stato sottolineato, UNIFIL non è ISAF e il Libano non è l’Afghanistan. Ciò è vero non solo per quel che concerne il rapporto con il governo libanese e per l’assenza di insorgenti ostili rispetto alla presenza di truppe internazionali che differenzia i due teatri operativi, ma anche per la diversa natura delle coalizioni. Se la prima era fondamentalmente costituita da truppe della NATO, lungamente addestrate ad operare insieme e accomunate da una dottrina di impiego simile, la seconda è invece una coalizione ad hoc, formata da truppe “anche” europee, ma ormai prevalentemente provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina. Questo maggiore pluralismo della coalizione, con le sfide inerenti i diversi stili e le differenti sensibilità dei contingenti è stato ugualmente illustrato dal generale Federici.
Il ruolo delle forze armate libanesi
Sulle Forze Armate Libanesi e sulla loro trasformazione nel corso degli anni si è concentrato il contributo di Aram Nerguizian, studioso libanese in forza al prestigioso Center for Strategic and International Studies di Washington. Nerguizian vanta una lunga collaborazione con lo Stato Maggiore delle LAF, di cui è probabilmente il maggior esperto mondiale e, più in generale, è un’autorità a livello internazionale sulle dinamiche strategiche e militari del Medio Oriente. Nerguizian ha innanzitutto fornito il quadro della situazione attuale delle LAF, con un organico passato dall’inizio del secolo da circa 20.000 uomini a oltre 68.000, anche in seguito all’istituzione del servizio militare obbligatorio. Ha illustrato la composizione confessionale delle LAF, con una predominanza sunnita tra le truppe e tra i ranghi inferiori dovuta alla loro maggiore presenza nella componente volontaria e a un ribilanciamento dell’egemonia cristiana tra gli ufficiali. Ha illustrato infine i problemi legati alle limitate risorse di bilancio e alla loro prevalente destinazione alla copertura delle spese per il personale.
L’aspetto più importante della sua relazione è stato quello della descrizione del mutamento delle priorità della missione delle LAF. Tradizionalmente impiegate come una forza di stabilizzazione interna o poco più, esse sono passate all’assunzione di una robusta postura difensiva, concentrata innanzitutto sulla protezione dei confini nazionali. Questo è vero sia per quanto riguarda il sud, dove le LAF sono schierate da ormai dieci anni, sia per ciò che concerne il lungo confine con la Siria. Quest’ultimo vede sempre più le LAF protagoniste di azioni tattiche complesse e di combattimenti anche aspri e prolungati per impedire l’infiltrazione massiccia di elementi qaedisti o affiliati all’ISIS dal teatro della sanguinosa guerra civile siriana, talvolta avvalendosi della collaborazione delle forze di Hezbollah, come nella regione di Arsal.
Laf e Hezbollah
E la complessa relazione tra LAF ed Hezbollah e, più in generale, il rapporto tra la sovranità dello Stato libanese e il partito-milizia guidato da Nasrallah sono stati al centro della riflessione di Marina Calculli. Già Fulbright fellow alla George Washington University, oggi Visiting Scholar al St. Anthony College di Oxford e ricercatrice all’Orientale di Napoli, Marina Calculli viene da una lunga esperienza di studio in Libano, Egitto e Siria, dove ha vissuto gran parte degli ultimi anni, diventando una delle maggiori e più giovani conoscitrici del Levante.
La domanda da cui è partita Calculli è stata come mai, dal 2006 ad oggi, Hezbollah si sia rafforzato così tanto, fino ad assumere un ruolo centrale nella guerra civile siriana ed essere il nuovo pivot del sistema politico interno libanese, nonostante la crescente ostilità di cui, soprattutto a livello internazionale, è stato fatto oggetto. Calculli ha individuato nelle ragioni politiche, piuttosto che in quelle militari, la chiave del successo. Se è vero infatti che, secondo le fonti di intelligence israeliane, Hezbollah è oggi straordinariamente più forte rispetto al 2006 (sia in termini del miglioramento qualitativo e quantitativo del suo arsenale missilistico sia per quanto riguarda la consistenza, il livello di addestramento e le capacità e le esperienze acquisite in un teatro operativo complesso come quello siriano), ciò che ha reso questo rafforzamento possibile è stata la sua abilità politica. Nell’analisi di Calculli, Hezbollah è stato capace di contrattare il suo rapporto con lo Stato libanese sia dall’esterno sia dall’interno, occupando tutte le posizioni che il sistema di ripartizione settario riserva alla sua componente con personale di qualità eccellente e capace di cercare il punto di convergenza (o almeno di non ostilità) tra gli interessi nazionali e quelli suoi propri.
Per molti aspetti, l’elezione del generale Aoun alla presidenza del Libano – dopo 27 mesi di vacuum – ben rappresenta l’abilità del movimento sciita di essere diventato il pivot del sistema. Allo stesso tempo, la collaborazione fattiva dimostrata tra LAF ed Hezbollah per la protezione del confine libanese dal percolamento di jiahdisti dalla Siria (di cui la battaglia intorno ad Arsal rappresenta il risultato più evidente) evidenzia come anche nei ranghi delle LAF la convinzione che il rafforzamento della loro legittimità e delle loro capacità passasse attraverso lo smantellamento della forza militare di Hezbollah sia stata ormai superata. Calculli ha ricordato come durante il suo lungo e brutale protettorato (conclusosi nel 2005 dopo un’ingerenza quasi trentennale) proprio la Siria avesse alimentato la separatezza e la rivalità tra le LAF ed Hezbollah, esercitando sulle prime un dominio indiscusso e sui secondi una protezione mediata dall’influenza iraniana.
L’espulsione delle truppe siriane dal Libano, in seguito all’omicidio di Rafik Hariri nel febbraio 2015, aveva rappresentato il punto di maggior tensione tra LAF ed Hezbollah e tra quest’ultimo e lo Stato libanese. Eppure, proprio a partire da quel momento, prendeva forma la strategia di Hassan Nasrallah volta a trovare un differente modus vivendi, fatto di cooperazione e concertazione ma mai di integrazione.
Per quanto a noi occidentali possa apparire bizzarro o inconcepibile (e su questo punto tutti gli studiosi si sono ritrovati concordi), la concezione libanese della sovranità è diversa e molto più articolata, contratta, condivisa, di quella che apaprtiene nella nostra tradizione e alla sua teorizzazione weberiana. Il mutamento del quadro strategico regionale e internazionale, ha però ammonito Calculli, potrebbe rappresentare uno delle maggiori incognite rispetto alla stabilità dell’equilibrio comunque fragile raggiunto all’interno del Libano.
I lavori sono stati conclusi dalla relazione del generale Claudio Graziano, Capo di Stato Maggiore della Difesa, e il più longevo e primo comandante italiano di UNIFIL, la cui azione ha caratterizzato lo stile acquisito dalla missione, instaurando una relazione che fosse, ad un tempo, rispettosa della sovranità libanese e contemporaneamente capace di rassicurare gli interlocutori israeliani. Oltre ad aver guidato UNIFIL, il generale Graziano ha partecipato alle missioni in Mozambico (UNOMOZ) e Afghanistan (ISAF), è stato addetto militare a Washington e Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Proprio l’inedita e importante funzione della “Commissione Tripartita” (il solo luogo in cui Israeliani e Libanesi hanno contatti diretti) è stato il punto di avvio del generale, che si è soffermato poi che sulla ricostruzione della lunga prima fase della missione UNIFIL, determinante per trovare la postura più corretta al successo della missione. Il generale Graziano ha voluto sottolineare il successo complessivo di UNIFIL nell’implementare la Risoluzione 1701, al cui esito le Forze Armate Italiane e l’Esercito in maniera preponderante hanno contribuito e continuano a contribuire. Proprio il modo italiano di concepire le missioni di peacekeeping, ha fornito l’ispirazione alla “dottrina Petraeus” poi impiegata, sia pure con diverse modalità relativamente alle differenti sfide di quel teatro operativo, nella fase centrale della lotta all’insorgenza in Afghanistan.