Economia
June 04 2014
“Altro che atenei in odore di bocciatura. Al contrario, il nostro sistema di istruzione non è secondo a nessuno: mettiamoci più tecnologia e managerialità e tutto il mondo ci invidierà”. Non ha dubbi Danilo Iervolino – trentaseienne presidente dell’Università telematica Pegaso (istituita nel 2006, lo scorso anno ha sfiorato le 10mila lauree con oltre 25 mila iscritti) – tornato di recente da un viaggio negli States proprio per toccare con mano la realtà americana in materia di istruzione.
Ha incontrato colossi del calibro della Columbia University, della New York University e della CUNY, oltre a primarie associazioni rappresentative delle comunità italiane all’estero quali il NIAF, lo IACE e la UIM. Ne vien fuori uno spaccato sorprendente in un tempo dove il tunnel della crisi sembra aver azzerato ottimismo e progettualità, che invece devono rappresentare la rampa di lancio per il riscatto dell’università italiana.
Un riscatto – Presidente Iervolino – che pare sia più alla portata degli atenei telematici che di quelli tradizionali.
Se allude al fatto che l’università telematica goda di maggiore snellezza decisionale e di una vocazione market-oriented, non c’è dubbio che essa colga le opportunità di sviluppo prima e meglio degli atenei tradizionali. I quali – è bene sottolinearlo – restano un patrimonio culturale del nostro Paese di grandissimo livello; spero vivamente che l’università italiana nel suo complesso ridisegni alla svelta il suo modello di insegnamento che tanto lustro ha dato e continua a dare anche all’estero.
Quindi lei incoraggia gli atenei tradizionali a seguire il modello telematico?
Assolutamente sì. Bisogna comprendere che il futuro dell’università telematica è già presente, nel senso che la tecnologia brucia i tempi a ritmo impressionante e la sfida sta nel costruire processi e innovazione che innervino tutto il sistema di apprendimento a distanza. Occorrono risorse, ma anche tanta strategia e tanto lavoro.
La Pegaso questa sfida l’ha vinta, almeno in Italia. Si appresta a farlo anche negli Stati Uniti?
Penso proprio di sì. Guardi, mi sono fatto un’idea abbastanza precisa del sistema universitario – tradizionale e on line – negli USA. E devo constatare, purtroppo, che spesso i luoghi comuni hanno la meglio sulla realtà delle cose. Ho appreso, ad esempio, che – contrariamente a quanto si crede – l’accreditamento di un’università in America è difficilissimo. Un ateneo può operare esclusivamente nel proprio Stato; se vuole aprire una sede in un altro Stato, ancorché americano, deve ottenere un’ulteriore autorizzazione. E poi c’è la questione del valore legale dei titoli di studio. Si dice che negli Stati Uniti è tutto free. Falso. Se i titoli conseguiti al termine del percorso di studio non corrispondono crediti formativi il loro valore non è neppure preso in considerazione dalle aziende che valutano i curriculum dei candidati. Per giunta, se le università non hanno crediti formativi in quanto non accreditate (ciò nonostante possono operare) le autorità governative non prestano i soldi agli studenti che sono costretti a pagare da soli le salatissime rette universitarie.
Insomma niente di nuovo rispetto al nostro sistema?
Ha visto? Per questo parlavo della forza dei luoghi comuni. In realtà in America – dal punto di vista dell’accreditamento – ci sono barriere in ingresso molto più alte che in Italia. Quando si parla di università americana a distanza, in Italia il nostro pensiero va dritto ai santuari del sapere. In realtà quelli tanto pontificati - tipo EDT, Khan Academy e Coursera – altro non sono che portali che trasferiscono su una piattaforma accessibile a tutti una quantità di corsi gratuiti, i cosiddetti Mooc (Massive Open Online Courses), che non hanno crediti universitari, non sono né moderati né coadiuvati da tutor, non hanno valenza legale e non sono sottoposti a controlli.
Quindi atenei on line per modo di dire?
Dico che la vera università a distanza negli USA è la Phoenix University, con 50 corsi di laurea e oltre 500 corsi formativi. La sorpresa, però, è nella struttura dei costi. La spesa media per accedere ad un’università americana è di oltre 20mila dollari; ma quanto viene destinato ai docenti? Alla Columbia University, ad esempio, circa il 9 per cento; il resto in laboratori, ma anche e soprattutto nel finanziamento delle squadre di baseball collegate agli atenei. Inutile dire che la stessa università vanta circa un miliardo di dollari investiti in Borsa. In Italia si griderebbe allo scandalo, ma lì tutto il sistema rende fortemente capitalizzate le fondazioni che sono alle spalle degli atenei.
E i docenti accettano questa situazione?
L’accademia americana è un sistema fantastico che dovrebbe – quello sì – essere preso a modello anche da noi. Non esiste la sostanziale inamovibilità del docente, come accade in Italia. Nel senso che vale il principio meritocratico: chi vale e svolge bene il proprio lavoro viene pagato profumatamente. La mia rabbia è che le eccellenze sono italiane e non si fa nulla per trattenerle in Patria.
Presidente Iervolino, esistono differenze nell’ambito delle metodologie didattiche?
Ho avuto modo di constatare che non esiste un modello pedagogico condiviso. Anzi gli americani sono rimasti colpiti dalla nostra attenzione ai modelli di supporto all’apprendimento, formali e informali. Il che mi fa pensare che l’Italia non è affatto indietro dal punto di vista didattico, grazie ad uno standard efficace e innovativo imperniato sul monitoraggio degli obiettivi finali e su un sistema di valutazione molto rigoroso. Ripeto: la maggior parte dei Ceo delle grandi aziende americane provengono dal nostro Paese, dunque si sono formati con il nostro sistema d’istruzione.
Qual è la ricetta per fare centro?
Innovare mantenendo alti gli standard sulla ricerca scientifica e sulla didattica. E poi snellezza burocratica e decisioni rapide. Questo impone il mondo globalizzato, questo chiedono i nativi digitali.