Università, test di accesso
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Università, tempesta sullo strapotere dei "Baroni"

«Poi alla fine qui siamo tutti parenti… alla fine l’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie». In queste parole del rettore di Catania Francesco Basile, il politologo statunitense Edward Banfield avrebbe potuto trovare la prova della sua teoria sul familismo amorale. L’intercettazione è finita nell’inchiesta che la Procura catanese, poco prima di chiedere l’arresto di Basile (poi rigettato dal gip), ha battezzato «Università bandita».

Il piano di Basile, dell’ex rettore Giacomo Pignataro e dei docenti coinvolti era quello di bandire concorsi cuciti su misura per i loro candidati. Concorsi ad personam. Come in altre università italiane. La consuetudine, come raccontano le indagini che da varie procure si sono abbattute come una tempesta sugli atenei, è questa.

«Che la cultura debba soggiacere al potere è la cosa più desolante», ha sentenziato il procuratore etneo Carmelo Zuccaro.

Neanche un mese fa, per restare in Sicilia, sono stati condannati tre docenti universitari, Simone Neri Serneri, Luigi Masella e Alessandra Staderini, che componevano la commissione d’esame per il concorso di ricercatore di Storia contemporanea nella struttura didattica di Lingue, a Ragusa. Un anno di reclusione ciascuno, pena sospesa, per abuso d’ufficio e interdizione dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi. I tre dovranno risarcire anche lo storico Giambattista Scirè che in quel concorso era stato bocciato, sostiene l’accusa, a vantaggio di un architetto che, pur non avendo i titoli, era arrivato primo.

Il copione si ripete un po’ ovunque negli atenei. E ognuno aveva la sua ricetta per far quadrare i concorsi. A Firenze, per esempio, vigeva il principio dello scambio di piaceri, che in campo accademico, per darsi legittimità, era diventato do ut des. I prof intercettati non erano contenti, ma si adeguavano: «Perché la logica universitaria è questa, è un mondo di merda». L’intercettazione è finita nei faldoni dell’inchiesta di Firenze, la più importante finora mai condotta da una procura.

Qui l’ipotesi è che con il classico do ut des, l’abilitazione di ben 26 docenti di diritto tributario in vari atenei italiani tra il 2013 e il 2015 avrebbe penalizzato la carriera accademica di almeno una dozzina di ricercatori. È lo scandalo più grande mai ipotizzato. Non solo per i numeri: 45 indagati di cui sette finiti agli arresti domiciliari, 22 interdizioni dall’insegnamento. Anche per estensione territoriale: sono stati colpiti tutti i principali atenei italiani, Roma, Firenze, Napoli, Bologna, Sassari e Palermo. E come ha ricostruito Claudia Fusani nelle news di Tiscali, al centro dell’inchiesta ci sono due associazioni, la Ssdt (Società studiosi diritto tributario) e la Aipdt (Associazione italiana professori diritto tributario), che raccolgono i migliori accademici della materia. Il top del diritto tributario. Che ha valutato l’abilitazione di decine di candidati. E infatti negli atti d’indagine è spiegato: «Ricevevano l’utilità di far abilitare i candidati sponsorizzati per conto della propria associazione e di non far abilitare i candidati ritenuti di ostacolo alle carriere dei propri allievi».

La cosa più triste è che il tutto avveniva «a prescindere da ogni merito, ma esclusivamente in funzione della soddisfazione degli interessi personali e delle rispettive associazioni». Alcuni di loro si sono difesi davanti al giudice sostenendo che «era un modo per alzare l’asticella». Ma nell’aula in quel momento deve essersi sentito molto forte lo stridio di chi ha tentato di arrampicarsi sugli specchi.

E a febbraio la Procura ha chiuso i conti con i prof, notificando a 45 di loro un avviso di conclusione delle indagini preliminari, atto che anticipa (se le cose non dovessero cambiare con interrogatorio difensivi e memorie) a una richiesta di rinvio a giudizio. Una delle intercettazioni è emblematica: far entrare le persone giuste nell’accademia significa anche gestire la materia. L’ex ministro Augusto Fantozzi, docente di diritto tributario, ex commissario straordinario di Alitalia e rettore dell’Università telematica «Giustino Fortunato» di Benevento, se lo fa scappare durante una cena intercettata in modo ambientale. «Bisogna trovare persone di buona volontà che di sopra e di sotto, di qua e di là, ricostituiscano un gruppo di garanzia che riesca a gestire la materia nei futuri concorsi».

E qui, oltre al principio del do ut des, ne viene coniato un altro. Fantozzi parla di «trade off», che nel lessico finanziario è la «perdita di qualcosa in cambio di altro». E infatti l’ex ministro pronostica «il trade off di Maisto contro Tundo», due candidati. E qui spunta un altro big della politica di qualche anno fa: il professor Gianni Marongiu, genovese, avvocato con un passato da sottosegretario alle Finanze nel primo governo Prodi. Marongiu, nella ricostruzione dei magistrati, è indicato nella fase riguardante la mancata abilitazione di una candidata «le cui aspirazioni di carriera presso l’Università di Genova», ricostruisce l’accusa, «erano invise a Marongiu allo scopo di tutelare quelle della figlia».

La palla, però, da Genova torna a Firenze, dove in un’altra indagine 16 persone sono indagate per l’ipotesi di aver pilotato concorsi della facoltà di Medicina. L’inchiesta è concentrata sul programma triennale di reclutamento di professori e ricercatori universitari e su un concorso per neurochirurgo.

Tra gli indagati ci sono l’ex direttrice dell’Ospedale Careggi di Firenze e attuale direttrice dell’assessorato regionale alla Salute, Monica Calamai, e il manager dell’ospedale, Rocco Damone. La stampa locale l’ha battezzata la «Cattedropoli dei baroni di medicina» che decidevano a tavolino chi far vincere. Ed è stato uno dei penalizzati, il professor Oreste Gallo, a segnalare in procura le anomalie. In passato uno dei denuncianti, sui social è diventato addirittura un eroe: Philip Laroma Jezzi, ricercatore tributarista, con una registrazione fatta con il cellulare è stato capace di incastrare altri baroni dell’università di Firenze. A lui lo dissero in faccia: «Non è che non sei idoneo ma non rientri nel patto, non sei in lista. Ritirati».

Le trame concorsuali nelle università italiane sono variegate, ma l’effetto è sempre il medesimo. A Palermo, per esempio, la tempesta ha colpito l’ex ordinario di Scienza delle finanze Andrea Parlato. L’hanno beccato a telefono mentre diceva: «Sono quattro più il nostro... sono tutti d’accordo». Secondo l’accusa, il prof spiegava come sarebbe finito il concorso per l’abilitazione all’insegnamento universitario. Era il marzo 2015. «Mariù passerà», diceva al telefono. Mariù, Maria Concetta, è la figlia di Parlato, ricercatrice a Scienze politiche.

Una «cricca», invece, è stata definita quella che avrebbe truccato i concorsi a Torino: un posto da ordinario all’Università e l’assegnazione indetta dall’ateneo di tre borse di studio nel dipartimento di Neuroscienze «Rita Levi Montalcini». Dall’indagine è emerso che i profili venivano cuciti addosso ai candidati sponsorizzati e che i concorsi venivano chiamati a telefono con il nome del futuro vincitore. Ma i trucchetti non riguardano solo i «baroni» universitari. A Padova è finito sotto inchiesta il direttore generale, l’ingegnere Alberto Scuttari, per aver assegnato, sospetta la Procura, il posto di addetta alle relazioni esterne a una sua storica collaboratrice con un concorso che sarebbe stato creato ad hoc. Un esposto anonimo arrivato in Procura prima della selezione conteneva il pronostico sul nome. L’indagine però, è finita con la richiesta di archiviazione da parte dello stesso Pubblico Ministero lo scorso aprile.

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