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May 10 2024
Stressati dall’esposizione continua (causa social), preoccupati per il futuro del mondo, schiacciati dal caro vita, chiusi in loro stessi e nel lavoro più interessati al work life balance che ai guadagni. Ecco come sono gli universitari oggi. Ci ha aiutato a capire e a dipingere l’identikit della nuova generazione negli atenei italiani Leonardo D'Onofrio, Ceo e cofondatore (con Francesco Brocca) di University Network, una startup che connette studenti, imprese e Università. Nata nel 2015 all’Università Statale di Milano, oggi conta una community di oltre 1 milione di universitari e torna quest’anno (10 e 11 maggio) con il Festival Universitario: due giornate di incontri e workshop dedicato a studenti e aziende per ispirarsi, conoscersi, formarsi e parlarsi.
Un milione di universitari, come sono cambiati questi studenti?
«Il più grande cambiamento è la voglia di non scendere a compromessi nella vita e nel lavoro. Non significa non essere disposti a sacrifici e fatica. Ma gli universitari oggi hanno un approccio diverso: lavoro e vita devono andare a braccetto. Quindi vogliono una professione che li appaghi, che piaccia, che li realizzi e preferiscono aziende che rispettino il loro stile di vita e i loro valori. Il work life balance, prima di tutto, anche a costo di meno certezze».
Dal racconto emerge la volontà di essere riconosciuti, di essere visti. È una generazione insicura?
«Soffrono per la continua e pressante esposizione causata dai social. È una generazione nata e cresciuta sui social e che convive dunque con il continuo confronto con migliaia e migliaia di persone di tutto il mondo che in vetrina sono sempre “più belle e più brave”. Questo porta stress e ansia. E poi si aggiungono le preoccupazioni economiche e per il futuro del mondo».
Preoccupano il caro affitti, vita, università?
«Il tema centrale, soprattutto l’anno scorso, è stato il costo della vita troppo elevato. Ricordate le proteste delle tende? Milano, soprattutto, è vista (ed è davvero) una città sempre più inaccessibile per gli studenti. Come sono Parigi, Londra e tutte le grandi città europee. Ma gli studenti sanno che nessuna città italiana ti dà le possibilità che ti dà Milano e quindi “devono” esserci, ma permettersela è sempre più complicato. Ci sono aziende che hanno capito il trend (per esempio sta crescendo Bari) e investono su altre città, ora dovrebbe farlo anche la politica però. I ragazzi vorrebbero rimanere nelle città di provincia e del Sud, ma hanno la sensazione di perdere un treno se lo fanno e poi a Milano arrancano, perché economicamente è fuori dalla loro portata».
Come vivono la definizione di generazione di mammoni e con poca voglia di fare?
«Hanno paura del futuro, sentendo la pressione economica. Si laureano ma sanno cosa li aspetta. Stage non retribuiti, poi apprendistati e se va bene un contratto indeterminato a 30 anni e solo allora, forse, un mutuo. Hanno la consapevolezza che vivere da soli è complicato, sempre di più. E vivono con questa domanda costante “Quando sarò autonomo?”. Si fanno anche molte domande sul futuro del mondo. Le guerre, l’ambiente sono temi che sentono come pressanti. “Che mondo mi aspetta fra 20 anni?”. E in questo si sentono abbandonati. Lo sconforto è più presente di un tempo. Forse ha influito anche la pandemia. Durante il Covid questa generazione si è sentita abbandonata, chiusa in casa e poco gestita. E ora non ha fiducia. E combattere diventa più complesso».
E per il futuro lavorativo cosa sognano? Pensano molto all’estero?
«Il fattore economico è una preoccupazione costante e quindi è fondamentale. Ma oggi nei loro ragionamenti lo stipendio è al pari del work life balance. Solo dopo arrivano i plus: l’auto aziendale, il telefono del lavoro e i vari benefit. Vogliono una vita lavorativa che permetta di vivere e che sia in linea con i loro valori, aldilà dello stipendio. C’è la voglia di rimanere in Italia, ma andare all’estero è sentito come un’opportunità per guadagnare di più e riuscire a fare impresa più facilmente. Lo vivono un pp’ come il modo per appagare lo sforzo fatto per tanti anni e che in Italia non viene riconosciuto, non come una fuga».
Dal punto di vista della vita sociale come sono gli universitari oggi?
«I social e il Covid poi hanno stravolto il modo di stare insieme. Chi oggi fa l’Università è nato e cresciuto con i social. Quindi sono abituati a comunicare in questo modo, con altri studenti in altri atenei e in altri Paesi. Ma poi sono pigri nell’approccio di persona. Si cercano tramite i social, ma sono “chiusi” quando il contatto è in presenza. Vi ricordate 20 anni fa le università? Piene e vissute praticamente H24. Ecco non è più così, anche se c’è la presenza, non è più così».
E come sentono il mondo degli adulti che hanno davanti?
«Vecchio e noioso, nel comunicare soprattutto. Già il mondo dell’istruzione è distante. Open day lunghissimi per presentarsi, pdf infiniti, siti antichi. Se mi presento (ateneo, azienda) con due ore di video statico, non parlo con questa generazione, la allontano. Dai licei escono ragazzi che non sanno mandare una mail, nel 2024. E lo sanno. Sentono distante dal loro mondo quello degli adulti. Sono nati e cresciuti con un modo di comunicare veloce e agevole e si trovano un mondo della scuola, università e lavoro che usa ancora le modalità di decenni fa. Ma c’è anche un altro fattore. La delusione. Molti fanno l’Università ancora pensando che questo risolva il loro futuro. Bisogna spiegare invece che se pensi che con la laurea il lavoro grosso sia fatto rimarrai deluso. Bisogna integrare lo studio con corsi, esperienze, internazionalità. Ma spesso non lo sanno, in questo sono ancorati ancora al passato».