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Uomini contro (in Procura)

L’ultima è la seguente, e leggiamola due volte perché non l’ha detta il signor Pincopallo portando a spasso il cane; l’ha dichiarato l’Associazione nazionale magistrati. Perciò: portare lo stipendio di un alto magistrato da 311 mila a 240 mila euro all’anno costituirebbe un attentato alla sua indipendenza. Quei 71 mila euro in meno (su 311) potrebbero renderlo poco sereno, farne uno sbandato, un corruttibile, Dio non voglia un fazioso. Per la precisione: "Un’eventuale iniziativa unilaterale del governo sarebbe grave e tale da dequalificare in prospettiva la magistratura". Così l’Anm. Nessuno ha calcolato ancora quanto valga la giustizia al chilo. Valutandola alla stregua del tartufo bianco di Alba, dove si parla di 3 mila euro sarebbero quasi 25 chili secchi di giustizia perduta. Più i rimanenti 80 chili di giustizia inquinata dall’insicurezza spalmata sul resto dei mesi. Una catastrofe. Per cui se ne può piangere, o è meglio riderne. Stare seri non è possibile, quando si parla della giustizia in Italia.

A stipendi costanti, ne succedono di ogni. Capita a Milano, in quello che passa per il centro storico della Patria del diritto, che il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati zittisca il suo aggiunto, Alfredo Robledo, ricordandogli (come lo stesso Robledo ha affermato) che se in quella tal elezione si fosse tolto lo sfizio di mandare al cesso qualcuno della corrente che capeggia, Robledo avrebbe fatto carriera col piffero. Episodio non privo di significato, in un Paese dove il magistrato è l’angelo della morale e i nominati sono tutti in Parlamento. La risposta di Robledo è arrivata secca: Bruti Liberati è un capoufficio incapace, o di parte, o ben che vada preda di rancore. La questione tra i due pende ora davanti a un Consiglio superiore della magistratura eletto dai colleghi che non sono andati alla toilette, o ci sono andati, dietro disposizione degli svariati dominus in toga che dominano le correnti. "C’è da chiedersi come mai ciò che dovunque è ritenuta cosa buona e giusta al Csm nostrano non piace" ha scritto sul Fatto quotidiano l’ex magistrato Bruno Tinti. "Politica e lobby, naturalmente. Cui le correnti, con buona pace delle conclamate specifiche sensibilità, altrettanto ovviamente si dimostrano non estranee". "Ma io scherzavo" ha tenuto a precisare Bruti Liberati. Già, lui scherzava.

A stipendi costanti, pure alla Procura di Palermo scherzano. Scherza il capo, gigioneggia l’aggiunto, si balocca il sostituto. Francesco Messineo denuncia al Csm (sempre quello) che Antonio Ingroia esercitava giustizia per tornaconto personale. Ingroia denuncia che Messineo è un pusillanime che lo accusa solo ora che è in disgrazia. Numerosi sostituti accusano sia Ingroia che Messineo. Il primo di aver fatto il bello e il cattivo tempo, il secondo di essere succube del primo, entrambi di aver ridotto la procura come un suk. Sono i pessimi scherzi prodotti da un’antimafia troppo somigliante, nei modi, a quelli dell’obiettivo da distruggere.

Fortuna che a Roma, in costanza di stipendi, si scherza di meno. Il procuratore Giuseppe Pignatone, l’ha scritto Panorama, sembra aver preso molto sul serio i rapporti imbarazzanti tra un imprenditore e alcuni potenti a proposito di favori e di controlli da alleggerire. Così sul serio da far accantonare l’intercettazione. E il 7 marzo ne ha fatto una ancora più seria, la Procura di Roma: Pignatone ha deciso che l’obbligatorietà dell’azione penale, baluardo della Costituzione e vessillo delle toghe, poteva andare in pensione. Quatto quatto: 12 mila all’anno erano le richieste del pm che il giudice poteva sopportare? E 12 mila sarebbero state quelle presentate dalla procura. Le altre migliaia di azioni penali? In cantina. Quali trattare e quali no l’avrebbe scelto l’accusa. Non i cittadini con il voto, gli eletti con una scelta, la democrazia con le sue regole. No, il pm. E il Csm (sempre quello) ha dato prontamente il suo benestare. Eh già, fanno così anche a Torino. Sembra uno scherzo, ma non lo è.   

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