carri armati abrams
(Ansa)
Difesa e Aerospazio

Gli Usa vogliono proteggere i carri armati dati all'Ucraina che non hanno cambiato la guerra

Che i carri armati americani Abrams M1A1 non fossero l’arma in grado di cambiare il conflitto russo-ucraino come Bruxelles andava predicando era cosa nota, meno probabile invece era che da Washington arrivasse la richiesta di ritirarli dal fronte dopo che, su una trentina di esemplari consegnati, nove sono stati distrutti e danneggiati dalle bombe plananti e dai droni armati. Non sono i soli, anche gli inglesi fecero ritirare i loro Challenger 2 (12 esemplari) dopo l’offensiva dell’autunno 2023, per lo stesso motivo e certo la produzione tedesca dei Leopard 2 non appare così fenomenale come la si dipingeva, con i carri di Berlino che saltano in aria come quelli russi.

Ma la neutralizzazione degli M1A1 è un colpo alla reputazione americana ed è avvenuta perlopiù nella provincia più occidentale di Avdiivka, nel Donbass, che nelle scorse settimane era quella più “calda”. In termini tecnici non esisteva però una sola ragione per dichiarare gli Abrams più resistenti di altri carri in forza all’Ucraina, anche perché le attuali armi anti-cingolati, siano esse missili, droni o bombe plananti, hanno subito un’evoluzione tecnologica più rapida dei mezzi terrestri che devono distruggere, indipendentemente da chi li fabbrica. E poi c’è il teatro di guerra che in Ucraina è un campo aperto nel quale è difficile nasconde qualsiasi carro armato, sia esso “made in Russia” (come i T64 o T72), Germania (come i Leopard 2), oppure appunto negli Usa come gli Abrams. Così il Pentagono ha chiesto alle forze ucraine di levarli dal fronte e usarli invece per ripristinare le difese.

In realtà c’è poco da fare nel momento in cui la differenza del numero di proiettili al giorno sparati tra le due parti è di 5 a 1 in favore dei russi, così anche l’Abrams, un mostro tecnologico e connesso che tiene puntato il bersaglio anche mentre avanza a zig-zag su terreni accidentati, in un ambiente di “saturazione” becca colpi su colpi che lo distruggono uccidendo i tre malcapitati chiusi dentro la sua torretta. Ma in vista dell’arrivo di nuove armi e dei famigerati F-16, ecco che salvare i carri per momenti di futura avanzata in ambiente “ripulito” da minacce aeree ha un senso anche se il ritiro degli M1A1 rende più debole il fronte e non salva automaticamente i carri perché i russi attaccano le retrovie ucraine con i missili. Ma è (almeno) una strategia per non sacrificarli nel tentativo di rallentare l’avanzata russa in questo momento, mentre Kiev schiera le nuove batterie missilistiche Patriot che consentiranno di proteggere le infrastrutture e gli Atacms per colpire in profondità i russi.

Nella richiesta degli Usa ci potrebbe essere però anche una ragione politico-commerciale: una figuraccia degli Abrams danneggerebbe la produzione statunitense che a fronte di un costo elevato – uno M1A1 costa 10,3 milioni di dollari – viene distrutta da un drone che ne costa al massimo ventimila. Anche perché gli americani hanno quasi 6.000 unità pronte che potrebbero essere rimpiazzate da versioni più moderne in arrivo, e se l’immagine commerciale del carro Usa fosse intaccata dal disastro ucraino non ci sarebbero eserciti a richiederle. A cominciare dalle forze europee che con la guerra in Ucraina hanno compreso di non riuscire a produrre carri armati in tempi accettabili per garantire la necessaria deterrenza, né per sostituire quelli inviati a Kiev (e in parte già distrutti), numero che stando ai siti di analisi militare ha già superato le 800 unità, delle quali circa 150 prodotte in Europa. Dalla Polonia all’Iraq, dall’Australia a Taiwan, dall’Egitto all’Arabia Saudita, i contratti firmati sono parecchi e una debacle dell’Abrams potrebbe portare a cancellazioni e rinunce. Sia chiaro, peggio è andata ai russi, con quasi duemila unità corazzate colpite, ma le scorte in termini numerici erano ben diverse e la produzione non si è mai fermata.

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