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September 07 2020
I bambini degli Anni di Piombo, che tutto guardavano e ascoltavano seppur tenuti fuori dai fatti, sono i protagonisti di Padrenostro, primo film italiano in concorso al debutto alla Mostra del cinema di Venezia. Spetta a Claudio Noce, già autore di Good morning Aman e La foresta di ghiaccio, aprire il quartetto tricolore in gara per il Leone d'oro. Lo fa affidandosi all'attore italiano più fulgido del momento, Pierfranscesco Favino, e narrando una storia personalissima e drammatica della sua infanzia, cercando di renderla una storia universale. I generi si confondono, l'intimità di dinamiche famigliari si permeano di tensione e paure, la fotografia di un periodo storico di attentati e minacce si mescola a una possibilità onirica che rimane addosso, sino alla fine, in sospensione tra ciò che è vero e ciò che è frutto di proiezioni e immaginazione. Forse.
1976. Valerio è un bimbetto di dieci anni biondissimo (interpretato da Mattia Garaci). Suo padre Alfonso (Favino), che tutti chiamano con riverenza «dottore», è spesso assente ma è come se fosse presente anche quando non c'è. Quando il padre rincasa, Valerio, timidamente, cerca di rubargli quanti più abbracci e promesse. Ma una mattina, quando Alfonso esce di casa, schioccano colpi sordi. Sua madre (Barbara Ronchi) e Valerio si precipitano alla terrazza e poi, di corsa, in una scena che rapisce, lungo le scale, giù a perdifiato. L'attentato è ancora in corso, passamontagna e colpi di mitra. In terra un uomo agli ultimi respiri e sangue.
Valerio ha visto tutto, anche se la mamma non lo sa e per giorni e giorni gli riserva lunghi silenzi, sorrisi di falsa serenità, rassicurazioni di scarse parole.
«È stato molto doloroso riaprire questa ferita, è stato un percorso lungo. Questo fatto è realmente accaduto alla mia famiglia e vive con noi da tanto tempo», spiega Noce. Suo padre Alfonso, allora vicequestore responsabile della sezione antiterrorismo di Lazio e Abruzzo, fu vittima di un attentato da parte dei Nuclei Armati Proletari. Claudio all'epoca aveva solo due anni, sua sorella era a scuola, ma suo fratello ha assistito davvero all'attacco insieme a sua madre, scendendo le scale, come nel film.
È stato l'incontro con Favino, che è anche produttore del film, a dare la scintilla finale perché questo ricordo vivido diventasse film. Lo racconta lo stesso attore produttore: «Tre anni e mezzo fa ho preso un caffè con Claudio e mi ha raccontato questa storia: mi si sono riaffacciati alla testa il ricordo di mio padre, della mia famiglia, di quegli odori, quella generazione… Mi sono accorto che nessuno ha raccontato i bambini di quegli anni, che venivano messi a letto presto, tenuti all'oscuro, però vedevano tutto, come Valerio, magari da dietro la porta. La nostra urgenza era quella di raccontare l'infanzia di quegli anni. Noi cinquantenni, e anche Claudio ,un po' più giovane di me, facciamo parte di quella generazione che, proprio perché non ha partecipato a grandi eventi politici, è stata messa a tacere. Noi non siamo stati antagonisti. Siamo passati dagli Anni di Piombo direttamente agli anni '80, piombati nel consumismo. Ne è nata una generazione laica, che non ha bisogno di mettersi nel bianco o nel nero. Una generazione di silenti educati, che ogni tanto si sente in dovere di chiedere permesso».
È esteticamente avvolgente la rievocazione degli anni '70, nei colori e nella fotografia di Michele D'Attanasio dai toni caldi e sfumati, negli oggetti riesumati con attenzione: la carta da parati, la serie animata La Linea in tv a tubo catodico, i gol di Chinaglia, il subbuteo, il libro di Sandokan. Valerio ha occhi affamati di suo padre, di sapere chi è davvero, di capirlo e di viverlo. Studia, spia, scopre.
L'ingresso in scena di Christian (Francesco Gheghi), quattordicenne scaltro che sbuca dal nulla, disorienta. È come se Padrenostro perdesse la rotta, o forse voglia giocare a farcela perdere. Questa presenza ambigua, amico reale di Valerio o visione, affascina ma offre anche una lettura finale che ha stonature.
«Credo che Padrenostro sia una lettera d'amore finalmente spedita», dice Favino, mai banale. «Ci sono due racconti di formazione nel film: un ragazzino che diventa ometto e un padre che ammette le sue debolezze».
Il rapporto padre-figlio è fatto di abbracci dati e altrettanti mancati, di sguardi teneri e parole non dette. Da una parte, nel figlio, la ricerca di una virilità da modello paterno. Dall'altra, nel padre, il riflesso di quei genitori anni Settanta che concedevano poche carezze e alle esternazioni dirette d'affetto preferivano dettagli di quotidianità insieme.
In Sala Grande la stampa ha concesso sparuti applausi.
Padrenostro uscirà al cinema il 24 settembre con Vision Distribution, e questa è una gioia: che i film tornino nelle sale cinematografiche, a lungo rimaste chiuse dal Coronavirus. Un atto di fiducia. Il distributore Nicola Maccanico: «Siamo grati a Barbera e Cicutto per questo festival, ma tutto ciò ha senso se riusciamo a portare i film agli spettatori. Con Venezia viviamo il Rinascimento del cinema. Ora sono usciti in sala due film americani, Tenet e After. È più facile aspettare che il mondo torni come era prima, ma noi pensiamo che ripartendo e facendo uscire i film al cinema riporteremo il mondo a come era prima». Applausi.