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May 13 2020
Siamo nel 2020, nell'anno zero della scuola - forse - ma la mia fiducia nel futuro che la riguarda consiste nel sapere che ci sono cose che solo la scuola può dare e sa fare.
Mi perdonerà Italo Calvino nella città invisibile che abita ora, se prendo spunto dalle sue parole per presentare il lavoro dei miei studenti. In questo periodo mi sono chiesta spesso dove si trovi la scuola nei discorsi che ogni giorno sento dalle televisioni e dai giornali, fatti dai tanti che pure pensano di conoscerla o forse di dirigerla.
Quello che appare dal nostro oggi quotidiano è solo l'esasperazione della sua povertà, che interi governi non hanno mai affrontato se non in modo assistenziale, ed è l'esaltazione della sua incapacità (da riferirsi, ovviamente, a noi che ci lavoriamo) con le mille proposte di un servizio pubblico che dice di volerla sostenere ma forse immagina di sostituire.
Quando è iniziata la quarantena, in un febbraio ormai lontano, ho pensato quasi subito a quelle famose parole delle lezioni di Calvino. Ogni giorno incontravo (e continuo a incontrare) in video i miei studenti, ma ne vedevo (e ne vedo) solo la testa, qualche fortunata volta una parte del busto, ma sempre e rigorosamente mai le loro gambe.
Non ci si pensa mai abbastanza alle gambe degli studenti, che sono prodigiose. Ancora più di quelle degli atleti. Perché è con la rapidità delle gambe che si proiettano lungo le scale all'intervallo per entrare nel quarto d'ora d'aria tutto loro e magari dei loro baci rubati; è con le loro lunghe leve che raggiungono l'uscita e insieme quella sensazione di leggerezza dai doveri che diventa sconosciuta all'età adulta.
Le loro gambe sono il mezzo di trasporto che li traghetta agili e lievi dentro tutti i futuri che immaginano. E a me quelle loro rapidità e leggerezza mancavano e mancano da morire. E poi, in questa terra misteriosa e confusa della scuola distante, come potevano gli studenti praticare la loro virtù intermittente, l'esattezza, praticata a senso unico, quando contano gli errori e i voti conseguenti e li approvano o li contestano? Quello che succede ogni mattina da video a video non è scuola, no, non diciamolo, per favore. È un'approssimazione, piuttosto, ma nemmeno con la migliore delle approssimazioni si va tanto lontano.
Hanno un bel dire gli esaltatori della didattica a distanza, che sostengono la salvaguardia della continuità della scuola anche in nome della visibilità dei sorrisi (quando ci sono). Sfido chiunque ad accontentarsi di un sorriso distante, che non sai nemmeno se è rivolto a te per davvero, perché l'immagine è sgranata e «forse saluta sua madre, anzi no, ha un altro dispositivo e sta guardando uno schermo diverso». E di molteplice io in questa situazione conosco solo gli sforzi di tutti, che però tolgono e non aumentano, con buona pace dell'aritmetica che fa nascere la parola ma non conosce l'anima del concetto.
È con queste premesse che mi sono chiesta che fare. Ho provato a spingerli a viaggiare, allora, a cercare in questo tempo malato tutto il visibile, l'esatto, il leggero, il molteplice dentro e fuori di loro e a trovare le parole per dirlo. «Viaggio intorno a una parola (e dentro a sé stessi)», si chiama questo percorso, e il patto era che partecipassi anch'io.
A quel punto, si incamminano con le loro gambe virtuali, alcuni entusiasti e altri stupiti che scuola sia anche questo. Ciascuno sceglie la sua personale parola: la pensano e la raccontano, io leggo e non correggo (e si vede), ne parliamo, però, insieme in lunghi pomeriggi fatti di «come» e «perché», e poi sceneggiano e registrano. Ed ecco il video.
Nelle immagini che scorreranno, troverete i nomi dei miei viaggiatori, ma non vedrete i loro visi, perché oggi per noi la scuola vera è fatta di voci, perché niente più di un suono è divenuto la spia dei volumi che immaginiamo occupino ancora i corpi, suggerisce l'emozione della vicinanza e scaccia le paure della distanza.
Sogno che arrivi un giorno in cui i governi, le famiglie, i giornali vedano ed esaltino la necessaria bellezza della didattica «equivicinante», che è l'unica ad accorgersi davvero di chi resta indietro o è trascurato, di chi non ha mezzi o è demotivato e che solo la vicinanza dei corpi («il corpo docente» e oggi più che mai il «corpo studente») svela e guarisce. Ripartire da lì per comprendere, finalmente, che solo la scuola sa fare scuola.