Draghi va negli Usa a barattare gas e finanza

Il 9 maggio il premier Draghi volerà negli Stati Uniti per dialogare con Joe Biden intorno alla guerra russa in Ucraina. Il rapporto tra Mario Draghi e il potere americano era iniziato con una luna di miele. Il Presidente del Consiglio sembrava un dono dal cielo della politica italiana ed europea per gli interessi della Casa Bianca. In Italia rimpiazzava Giuseppe Conte, presidente del consiglio sconosciuto e ambiguo che non ha mai nascosto la propria apertura internazionale alla Cina. Le forniture sanitarie da Pechino nel corso della prima ondata, gli accordi commerciali tentati con Xi nel suo primo governo tra il 2018 e il 2019 erano stati i segnali superficiali più evidente di questo rapporto. Inoltre, Conte aveva anche creato una struttura di sottogoverno e d’intelligence, tanto nel primo governo con la Lega che nel secondo con il Pd, meno incline all’atlantismo e più aperta a Cina e Russia. Il collasso del Conte 2 e la nomina di Mario Draghi, uomo di comprovata lealtà “americana”, alla presidenza del consiglio deve essere apparsa provvidenziale oltreoceano. E per gli interessi della politica estera dell’asse Roma-Washington di fatto lo è stata. Mario Draghi non ha fatto prigionieri, rimpiazzando tutte le strutture e gli uomini della stagione precedente. Si è poi dedicato ad un uso sempre più esteso della golden power al fine di controllare gli investimenti cinesi, una struttura fatta evolvere anche sul piano burocratico in un vero e proprio dipartimento di Palazzo Chigi. Anche sul piano europeo, Draghi ha contribuito ad un allentamento del patto di stabilità e all’ammorbidimento dell’ordoliberalismo tedesco espresso dalla CDU, fino a pochi mesi fa partito determinante della politica europea con Angela Merkel. Poi lo scenario è cambiato. La Merkel si è ritirata, la CDU è stata sostituita dai più atlantisti e statalisti Verdi tedeschi nella nuova coalizione di governo con SPD e FDP. La Germania ha iniziato a sterzare la propria politica economica verso una maggiore spesa pubblica anche senza le sollecitazioni di Francia e Italia. Mario Draghi ha tentato la scalata al Quirinale, con il sostegno della stampa internazionale e atlantica (importanti endorsement ricevuti da Bloomberg, Financial Times, The Economist). Il tentativo è però fallito, ingoiato dalla palude parlamentare italiana che ha scelto lo status quo con la riconferma di Mattarella. È in quel momento che la percezione del Draghi sempre vincente è entrata in crisi. I media internazionali hanno iniziato ad essere più duri con i risultati politici del premier, il governo si è indebolito a causa di una maggioranza sfilacciata, per i risultati del Next Generation EU c’è ancora da aspettare. Alla fine è arrivata l’invasione russa a cambiare definitivamente il quadro. Dapprima Draghi si è mosso con prudenza sulle sanzioni, più colomba che falco, consapevole dell’impatto economico delle stesse sull’Italia. C’erano in ballo gas, petrolio, turismo ma anche importanti partecipazioni bancarie. Poi dopo le prime settimane di guerra Washington ha stretto i bulloni dell’alleanza atlantica. Il premier è stato costretto ad assumere una posizione più assertiva, più filo-americana e meno vicina alla Germania, l’altro grande paese europeo molto dipendente dalla Russia e con un establishment vicino alle propaggini dello Stato russo. L’Italia ha fornito supporto militare all’Ucraina, sanzionato gli oligarchi russi e il governo si dice pronto all’embargo su gas e petrolio. Se ne discuterà nelle prossime settimane, anche se una posizione unitaria europea appare difficile da raggiungere. Cosa può portare sui tavoli della Casa Bianca Mario Draghi in questo scenario? Non si deve dimenticare che la politica non è fatta di pacche sulle spalle, ma di do ut des. Il primo scambio da chiedere è allora quello energetico. Una posizione dura a favore dell’embargo sul gas e il petrolio russo passa dalla costruzione di alternative che gli americani possono aiutare a costruire. Sia sul piano della fornitura del GNL (gas liquido americano) che su quello dei rapporti commerciali con gli altri produttori. La seconda questione da discutere è un piano europeo di ulteriori stimoli fiscali per fronteggiare un ulteriore inasprimento di sanzioni. La Casa Bianca può, come già accaduto nelle crisi precedenti, incentivare Bruxelles ad agire, a varare un ulteriore passo in avanti nella politica economica e nella creazione di debito comune proprio per evitare una dolorosa stagflazione. E su questi due punti, oltre che sulle questioni militari da cui pure l’Italia può ricavare qualcosa per le proprie aziende, Draghi dovrà mostrarsi più abile del solito a Washington. Quella incertezza, pur contenuta, sulla sua affidabilità politica potrà essere così recuperata, magari con qualche limitazione del danno per la nostra economia.

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