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April 28 2015
Per qualcuno il calcio italiano meriterebbe di essere messo in naftalina, nell'attesa che si risolva in modo definitivo il problema della violenza fuori e dentro gli stadi. E' successo in Grecia, è capitato in Turchia. Stop al campionato sine die, il castigo che dovrebbe insegnare a non ripetere l'errore. Per altri, il discorso è molto più complesso, perché prende le mosse da un disagio strutturale ed economico che dovrebbe essere riveduto e corretto con interventi a lungo termine. Chi sbaglia, paga, certo, ma invece di limitarsi a mettere la toppa al buco del momento, si dovrebbe iniziare a lavorare affinché venga modificato l'approccio stesso alla questione: oggi per domani, non oggi per ieri. E' di questo avviso Luca Bifulco, sociologo dell'Università degli studi di Napoli Federico II e autore del libro “A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica”, scritto a quattro mani con il collega Francesco Pirone.
Come interpretare quanto è accaduto fuori e dentro lo stadio Olimpico di Torino?
“Le cause di quanto è successo sono evidentemente numerose. In genere, in situazioni come queste si cerca una spiegazione morale ed etica che possa essere applicata a tutti gli attori coinvolti nella vicenda. Spesso è invece l'organizzazione dell'evento che crea una situazione tale da produrre effetti di questo tipo. Sia chiaro, non assolvo nessuno, ognuno è responsabile del proprio comportamento, ma è necessario dire che in molti casi le ragioni che stanno dietro a fatti simili sono molto più complesse di quanto potrebbe sembrare a una prima e superficiale analisi”.
Derby Torino, le immagini degli scontri
La stampa semplifica. Quindi, sbaglia?
“Ho sentito parlare in diversi salotti televisivi del concetto di repressione. Una bella parola che premia chi la dice e piace a chi la ascolta, ma che poco significa sotto il profilo pratico. Quale sarebbe la soluzione per risolvere il problema? Inibire l'accesso allo stadio a tutte le persone che fanno parte della tifoseria organizzata? Ma questo è contrario a qualsiasi forma di diritto. Per placare la nostra sete morale, la polizia dovrebbe caricare ogni volta che se ne presenta l'occasione? Per carità, sarebbe una scelta che produrrebbe disordini a catena. Questi discorsi moralistici sono peggiori del male che si vuole curare. Rivedere l'organizzazione degli eventi, ecco cosa bisognerebbe fare per cambiare le cose”.
Cosa intende?
“Parlo di una strategia più complessiva. Nel dettaglio, mi riferisco per esempio alla creazione di fan zone e a percorsi di transito e passaggio cittadino più facili da tenere sotto controllo dalle forze dell'ordine. Ripeto, non assolvo il comportamento di alcuno. Chi ha dato calci e pugni al bus della Juventus non merita alcuna giustificazione”.
La domanda rimbalza da ogni dove: cosa spinge persone comuni a trasformarsi in barbari in occasione di una partita di pallone?
“L'aggressività è un aspetto dell'essere umano, da sempre. Non si può debellare, ma occorre trovare il modo di canalizzarla prima che possa diventare pericolosa per gli altri. Giusto o sbagliato che sia, l'identificazione calcistica è una delle più premianti nella nostra società. E chi si identifica in un gruppo ha bisogno, per confronto, di individuare il gruppo contrapposto. Succede in tutti gli aspetti del quotidiano, anche se fortunatamente soltanto in rari casi si passa alla violenza. Per lavorare in questa direzione, per trovare una risposta adeguata ai casi come quelli di Torino, sarebbe necessario investire su un progetto educativo a lungo termine. Ma i tempi lunghi hanno meno presa dal punto di vista della propaganda politica e dell'impatto mediatico. Perché i risultati sono meno visibili nel breve”
Da dove iniziare?
“Cominciamo a ristrutturare gli stadi, che in Italia sono spesso fatiscenti. Se si vuole mettere mano al problema occorre mettere mano anche al portafogli. Anche se va detto che gli stadi non sono affatto luoghi demoniaci, ma soltanto il riflesso di quanto c'è fuori. Per inciso, la pericolosità sociale dello stadio è molto più relativa di quella che viene descritta dalla percezione collettiva”.
La violenza nel calcio può essere letta come una delle dirette conseguenze del disagio sociale che il nostro Paese sta attraversando?
“Lo stadio è l'espressione del territorio in cui si trova. Non è una realtà a sé stante, tutt'altro. E garantire la sicurezza negli stadi è funzionale soltanto se parallelamente si lavora sulla promozione educativa del contesto territoriale in cui ha sede l'impianto. Altrimenti, si lavora a metà”.
Si dice da tempo: in Inghilterra sono riusciti a risolvere il problema degli hooligans con misure repressive molto dure. E' l'unica strada possibile per voltare pagina?
“In Inghilterra non hanno risolto il problema degli hooligans, l'hanno spostato fuori degli stadi. Hanno trovato un modo per dislocare altrove la violenza, non l'hanno eliminata. Ma il loro è stato un percorso più ampio. Hanno iniziato ammodernando gli impianti e trasformando le partite in veri e propri eventi spettacolari. Per intendersi, hanno garantito i posti a sedere numerati e allo stesso tempo hanno aumentato il prezzo dei biglietti, di fatto escludendo la classe sociale meno abbiente. Perché? Semplice. Hanno visto che gli hooligans appartenevano alla working class e hanno agito sulla leva del portafogli per impedirgli l'ingresso agli impianti. In Italia è un modello che non potrebbe essere seguito. Perché gli ultrà non appartengono a specifiche categorie sociali. E anche se fosse possibile, bisognerebbe poi aspettarsi la risposta di coloro che vengono esclusi, con tutte le conseguenze del caso. La repressione, da sola, non funziona. A meno che non si decida di derogare dalla legge. E dalla logica”.