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TIZIANA FABI/AFP/Getty Images
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Virginia Raggi, decrescita capitale

Sì, va bene, il debito soffocante e gli autobus che vanno a fuoco. E poi i cassonetti dell’immondizia che si espandono in verticale con sacchi e sacchetti colorati di rifiuti. La risposta romana a quelli che invece hanno Gaudì. E su tutto, il regno animale del gabbiano oversize, la nuova Lupa, l’unico che fa veramente la raccolta differenziata in questa città meravigliosa, insieme a migliaia di rom con carrello e rastrello e a centinaia di trentenni africani ben vestiti e con il cappello in mano, piazzati di fronte a ogni bar e a ogni supermercato, a chiedere l’elemosina o a spazzare cinque metri quadri di marciapiede. Due eserciti alternativi che ogni mattina s’irraggiano per la capitale da punti misteriosi e spiegano meglio di mille studi che cosa succede quando il controllo del territorio ce l’hanno gli altri.

Per contemplare il ritardo della capitale, basta salire su un qualunque colle e guadarsi intorno: non si vede una gru. Non si costruisce niente, non si progetta nulla, non s’immagina nulla a parte convertire la casa dei genitori in un bed&breakfast. Si vive di rendita. Amen. Il medesimo sguardo dall’alto su Berlino, Parigi, Londra, Madrid, Barcellona e perfino su Vienna, consegna impressioni diametralmente opposte: le capitali vivono, osano, sperimentano, si rinnovano continuamente. Non puntano su un turismo di seconda categoria, al quale offrire solo il colore del cielo, ruderi e vestigia, una cucina saporita ma greve e sempre eguale a sé stessa, ex galeotti vestiti da centurioni e negozietti indiani a tutela del made in Italy. La Roma di Virginia Raggi forse non è peggio di quella che le è stata lasciata dall’inchiesta su Mafia capitale, ma è un inno alla paralisi. «Dobbiamo fare solo cose che siano pronte per la fine del mandato», ovvero per la primavera 2021, ripete costantemente ai propri collaboratori più stretti l’avvocatina di Ottavia, la borgata senz’arte né anima cresciuta a casaccio lungo il lembo nord occidentale del Gra.

Il pomeriggio di mercoledì 24 luglio, la Raggi ha l’umore sotto i tacchi per colpa di Luigi Di Maio, che con la riforma interna del «mandato zero» l’ha appena accompagnata alla porta, perché le verrà cumulato il mandato di consigliere comunale di opposizione con quello di sindaco e così tra due anni dovrà tornare a fare l’avvocato. In ogni caso, il suo bel nastrino lo taglia anche la Raggi, camicetta arancione e fascia tricolore a tracolla, in sella a una bicicletta che legittima il suo soprannome nei salotti della Capitale: «la Bambolina». C’è da inaugurare un tratto di pista ciclabile di appena tre chilometri neppure consecutivi, sulla via Nomentana, tra piazza Sempione e Porta Pia. E in un bollente pomeriggio di fine luglio Donna Virginia si presenta alla cerimonia in versione Greta de’ noantri, come se stesse offrendo alla città un nuovo impianto di trattamento dei rifiuti.

Quello che Nicola Zingaretti, furbetto, non le fa fare e sul quale la impicca da tre anni. Per altro, con onestà, la sindaca ammette che anche la mini-ciclabile era farina del sacco di Ignazio Marino, giustiziato dal Pd. Ok, assicurati alla giustizia i Carminati e i Buzzi, qui forse si ruba e s’intrallazza di meno, ma dopo tre anni di non-governo si può continuare a rispondere alle critiche con il solito: «E allora, quando c’era il Pd?».

Quando non c’è un progetto urbanistico, ma neppure un’idea di sviluppo economico, «l’evento sportivo», diventa misura di tutto. Ma questa Roma senza gru e senza progetti ambiziosi è il simbolo di una certa mentalità grillina, una decrescita magari onesta, ma fondamentalmente gretta e infelice. Poi, da zero, la voglia improvvisa di ospitare gli Europei di nuoto. Eppure la Raggi esordì facendo di tutto perché Roma non si candidasse ad accogliere le Olimpiadi 2024. Anche Matteo Salvini, va detto, definì il progetto una follia, mentre l’allora premier Matteo Renzi aveva deciso di appoggiare la candidatura facendola gestire ai soliti noti dei circoletti sul Tevere, quelli dove un paio di scarpe inglesi ai piedi e il collettone a punta della camicia fanno subito «classe dirigente». Ma nulla è stato pensato in alternativa, dalla Raggi.

E allora in quest’estate nella quale i mezzi dell’Atac continuano ad andare a fuoco come monaci buddhisti al ritmo di due al mese, il 17 luglio la Raggi sale sul trampolino e si lancia in un doppio carpiato: «Roma vuole confermarsi protagonista delle rassegne internazionali. Ci candidiamo per ospitare gli Europei di nuoto del 2022». Ma come, fiumi di retorica grillina contro i «grandi eventi», le ruberie dei predecessori, le tirate contro il Coni di Giovanni Malagò, le piscine bucate, i «circoli esclusivi» che si sono rifatti gli impianti «con i soldi del contribuente» in occasione dei Mondiali del 2009?

Ma gli uomini della Raggi si aspettano 100 mila spettatori sulle gradinate tra Ostia e Foro Italico, 200 milioni di telespettatori e un incasso di almeno 100 milioni di euro. Eppure i «migliori Mondiali nella storia del nuoto», come disse un sobrio Gianni Alemanno dieci anni fa chiudendo Roma 2009, hanno lasciato un buco da 9,7 milioni di euro, coperto dal solito Milleproroghe del governo, l’anno seguente. Colpa delle stime: a tre mesi dall’inizio dei Mondiali, il comitato organizzatore straparlava di 1 milione e 600 mila biglietti già venduti. Ma dopo 17 giorni di gare i biglietti venduti si erano fermati a quota 124 mila, per un incasso di 3,9 milioni. I grillini hanno campato su storie così, ma ora scoprono anche loro la retorica del «Grande evento». Non è sbagliata, per carità, a patto che oltre che onesti si sia anche un minimo capaci. E umili, ovvero disposti a confrontarsi con gli architetti e non solo con quattro geometri del proprio meetup grillino. 

Così dopo l’ennesimo Salva-Roma, ecco che la Raggi scopre il fascino tardivo del «Grande diversivo». Eppure ci sarebbero servizi da garantire ai cittadini, cose semplici che fanno tutte le amministrazioni in tutto il mondo, come raccogliere la spazzatura e smaltirla, oppure tenere bene le strade. Il problema delle municipalizzate capitoline è sempre il solito micidiale impasto di clientele, sindacalizzazione deteriore a scapito del più elementare rispetto dei diritti dei cittadini, e un disservizio cronico che a sua volta alimenta nella comunità una già spiccata carenza di senso civico.

Ama, la società che dovrebbe tenere pulita questa città di soli 2,8 milioni di abitanti che però a volte sembra già Città del Messico, dà lavoro a ben 7.800 persone. Nel 2015 (con Marino) aveva il bilancio in utile per 900 mila euro e l’anno seguente per 626 mila. Il bilancio 2017 non è stato approvato, ma sarà certamente in perdita, come quello dell’anno scorso. L’Atac, con i suoi scenografici roghi, tre anni fa aveva annunciato il famoso pareggio di bilancio e invece ha bruciato 325 milioni di euro nel biennio 2016-2017. I conti del 2018 non sono ancora stati approvati e il preconsuntivo è in attivo, ma solo perché anche gli interessi sui debiti, grazie al concordato fallimentare, sono congelati da più di un anno.

Il Comune riesce a perdere denari perfino sulle farmacie, dove ci vuole davvero uno scienziato, e la Farmacap (con 45 negozi) è in rosso da anni, al pari di Roma Metropolitane, che non approva il bilancio dal 2016 a seguito di varie contestazioni.

Al di là delle chiacchiere e dei sorrisi, qui la Bambolina non paga nessuno. Nel 2018 sono esplosi i debiti commerciali del Comune, schizzati da 1,14 miliardi di euro a 1,5 miliardi, per un balzo del 32 per cento in un anno soltanto. Anche questo modo di finanziarsi sulle spalle dei fornitori «è colpa del Pd» e degli amichetti di spranga di Alemanno? Ad agosto del 2019, terzo anno dell’Era grillina, è una tesi dura da sostenere. Specie con questo skyline senza gru, piatto come l’encefalogramma di chi lo ha prodotto, di diniego in diniego. L’unica opera che alla Raggi sembrava piacere era il nuovo stadio della Roma, da costruire a Tor di Valle in una zona scelta con il lanternino tra le più alluvionali e scollegate della città, ma che era di proprietà del costruttore Luca Parnasi, a sua volta pesantemente indebitato con la ex Banca di Roma, oggi Unicredit. Due anni fa la Procura di Roma ha fatto una bella retata in stile Prima Repubblica, con i grillini in veste di nuovi socialisti, e ora è tutto fermo. Come le dimissioni di Marcello De Vito, il presidente pentastellato del consiglio comunale, arrestato il 20 marzo con l’accusa di corruzione e che tutti hanno il terrore di rimuovere.

La realtà è che a parte il viaggiatore low cost Alessandro Di Battista, Raggi non ha più alleati nel Movimento. La deputata Roberta Lombardi, candidata mancata al Campidoglio, non perde occasione per commentare i suoi insuccessi, e la vicepresidente del Senato Paola Taverna ha il dente avvelenato con lei per lo sfratto della madre da una casa popolare. E si sono chiusi in un silenzio che non promette nulla di buono per la Bambolina Carla Ruocco, avvocato anch’essa ma di tutt’altra tempra, Carlo Sibillia e Nicola Morra. Non le perdonano gli inciampi giudiziari come il caso di Raffaele Marra, e non capiscono il suo immobilismo. Questa Roma che ha appena elemosinato l’ennesimo decretinogovernativo,ottenendo 300 milioni di contributo annuo, è seduta su un debito di 12 miliardi, tre quarti dei quali finanziari e lascito dei sindaci precedenti, di ogni colore e valore. Alcuni, però, almeno hanno lasciato qualcosa ai romani, mentre la Raggi che vuole solo opere da giocarsi in campagna elettorale è il mesto gestore di una città che ogni giorno si allontana dalle capitali d’Europa. Un nientino che alla fine ti rade al suolo più di un Nerone, ma senza un solo lampo di grandezza. n

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