Roma somiglia a un ragazzino discolo e impertinente. Ha quasi 2.800 anni di storia, eppure ogni volta che succede qualcosa di storto ci raccontano che l’evento non era prevedibile e che, se pure lo fosse stato, non ci sarebbe stato modo di scongiurarlo. A frittata fatta arriva sempre una commissione d’inchiesta, un’approfondita analisi degli eventi, un’indagine amministrativa o giudiziaria che si conclude sempre con il solito rimbrotto: non succederà più. Come si fa con i ragazzini scapestrati. Il pater familias non paga mai, si chiama fuori dalle responsabilità. Fugge e si autoassolve. Perché, viceversa, un superficiale esame di coscienza dovrebbe spingerlo a fare l’unica cosa giusta: mea culpa e tanti saluti.
Il funerale di Vittorio Casamonica consegna così a tutti i cives romani l’indignazione e la rabbia di una città forte con i deboli e debole con i forti. Di quella città che fa la faccia feroce davanti ogni piccola e insignificante manchevolezza dei suoi abitanti «normali» ma che si genuflette di fronte ai delinquenti. Lo spettacolo indegno di quel funerale non è quello della carrozza, delle gigantografie affisse sulla facciata della chiesa, della banda che suona il padrino o dell’elicottero che lancia petali di rosa. È indegno tutto ciò che è accaduto a tumulazione avvenuta. Il rito di autoassoluzione collettiva che, lette le solite «relazioni approfondite», ha fatto dire ancora una volta: tranquilli, non accadrà più.
Indecente. Nel paese che vanta al mondo il maggior numero di corpi speciali di polizia, carabinieri e guardia di finanza dedicati alla criminalità organizzata, nella capitale dove ha sede la Direzione nazionale antimafia, nella città che ha chiamato un pubblico ministero a occuparsi di «legalità», nessuno ha avuto la dignità foss’anche di facciata di fare un passo indietro. Hanno tutti trovato il modo di chiamarsi fuori in maniera più o meno ridicola, coperti e protetti da una maggioranza politica vigliacchetta che ha dovuto attendere la messa di commemorazione del defunto prima che il suo massimo rappresentante - il loquacissimo presidente del Consiglio - ritrovasse la favella. La città si prepara ora a digerire come un bignè lo scandalo di Mafia capitale, imboccata in questa operazione di autoconservazione da un governo che in altre e numerose occasioni ha sciolto per molto ma molto meno, in nome di una presunta infiltrazione della mafia, Comuni che poi si sono dimostrati puliti.
A Roma hanno arrestato e indagato assessori e consiglieri, altri importanti assessori si sono dimessi, eppure la giunta rimarrà lì con un sindaco-travicello intento a galleggiare grazie a un premier senza legittimazione popolare che pensa di essere Zeus e non si accorge di essere la caricatura di un buon governante. E si ricomincerà da dove si erano lasciati, fino a quando non ascolteremo un novello elemosiniere della politica come Salvatore Buzzi affermare: "Questo appalto deve ritornà tutto a noi perché una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso…".