Volga, nel cuore di tenebra della Russia

«La morte è la chiave per capire chi sono i russi». Per cogliere il messaggio bisogna arrivare a Rzev, dove il Volga fa tre ampie curve sonnacchiose, e fermarsi davanti al monumento al Soldato sovietico eretto da Vladimir Putin quattro anni fa: 25 metri di bronzo fuso visibili da dieci chilometri di distanza per ricordare la battaglia dimenticata, un milione e 300 mila uomini morti per fermare le armate di Hitler. È l’altra Stalingrado. Quella mattanza fu espunta anche dai libri di scuola perché il sacrificio di vite umane era stato così spaventoso da offuscare il mito stesso della vittoria. A valle avevano disposto reti da pesca per bloccare migliaia di corpi che scendevano con la corrente.

«È il memoriale realizzato dopo l’annessione della Crimea, con il quale Putin ha voluto dire ai russi che lui, la battaglia, non l’ha dimenticata». A parlare è Marzio Mian, giornalista di stampo chatwiniano che secondo la tradizione dei grandi inviati del passato (Luigi Barzini, Egisto Corradi, Ettore Mo) per spiegare la Storia non va nei talk show televisivi ma nei luoghi dove è avvenuta. È autore di un libro rivelatore, Volga Blues, sottotitolo Viaggio nel cuore della Russia (Feltrinelli Gramma), frutto prezioso di una spedizione unica lungo i 6 mila chilometri del grande fiume considerato la fonte battesimale di un insieme di popoli, dalla sorgente alla foce, da San Pietroburgo ad Astrakan sul mar Caspio. Dove Europa e Asia si incontrano o si dividono a seconda che la bussola della Storia russa indichi Oriente oppure Occidente.

«Con quel Soldato a guardia del Paese», racconta Mian, riuscito a compiere l’impresa mentre tuonano i cannoni poco più a occidente, «Putin ha inteso celebrare la fine del lutto per la morte dell’Unione Sovietica e l’inizio del suo Grande Gioco: l’apertura delle ostilità per dimostrare che, a partire dall’Ucraina, lo spazio appartenuto all’impero non può ritenersi altro che il cortile della Russia di oggi. E che essere un Paese ex Urss non significa avere archiviato né la Storia né la Geografia. Ma c’è un altro aspetto importante da considerare. Lo scultore Andrej Korobcov aveva pensato la statua rivolta a Oriente, verso Mosca, e invece Putin ha ordinato che il Soldato fosse orientato a Ovest, versante Nato. Sottigliezza che la stampa polacca e quella baltica, a suo tempo, non hanno mancato di notare».

Volga Blues perché la colonna sonora del viaggio è la musica della terra, un senso di malinconia che ha accompagnato l’autore e le due guide Vlad e Katja dentro il cuore di tenebra della Russia in guerra con l’Occidente. Una goccia del Volga, dicono, impiega circa un mese per scendere dalle sorgenti, sul Rialto del Valdaj, fino al delta di Astrakan. E un mese è durato il loro viaggio. «È il più lungo corso d’acqua d’Europa, con la fonte e la foce a fusi orari diversi, l’una alla latitudine del Mare del Nord, l’altra allo stesso parallelo del Lago di Como. Quando siamo partiti, nel sottobosco della taiga, sotto i larici e gli abeti c’erano i bucaneve, i primi mirtilli e le fragole selvatiche. Giunti ad Astrakan, la steppa era tostata dal sole, sul delta sbocciavano i fiori di loto, le angurie erano già mature e dolcissime».

Hanno attraversato Tver, Dubna, Rybinsk, Jaroslavl, Nižnij Novgorod, Kazan, Uljanovsk, Samara, Saratov, Volgograd: 6 mila chilometri senza mai incontrare un solo straniero occidentale, senza ascoltare altra lingua che il russo. Una condizione mai provata prima. «Eppure abbiamo visitato grandi città dove si fanno affari, dove la vita va avanti», sottolinea Mian. «Sembra un paradosso, ma forse la Russia non è mai stata così prospera come oggi. È anche la Russia paranoica di Putin, intrisa di retorica e soffocata dal controllo dell’Fsb, i servizi di sicurezza eredi del Kgb; si vive in un costante stato d’inquietudine, che non di rado può diventare panico. L’aspetto più evidente è che quell’immenso Paese ci ha voltato le spalle perché non vuole essere contaminato. La sua è una lotta per la sopravvivenza. I russi sanno che se dovessero essere intaccati dal nichilismo occidentale che nega identità e tradizione, per loro sarebbe la fine. Anche i progressisti, che non accettano l’approccio guerrafondaio di Putin, ritengono che oggi la cultura occidentale sia demoniaca. Una parola che si sente spesso laggiù».

I grandi fiumi dicono le cose come stanno. Scorrono in un loro tempo assoluto che pare lambire distrattamente la storia degli uomini, ma sono testimoni capaci di consegnare implacabili verità. Per questo Mian, per capire le verità nascoste della Russia, ha ascoltato il Volga. Come aveva ascoltato il Tamigi per capire la Brexit, il Mississippi per cogliere i fremiti trumpiani dell’America, il Tevere per rievocare pregi e difetti dell’Italia immobile e i ghiacci artici per interpretare la guerra bianca fra le grandi potenze per il possesso delle terre rare. Volga Blues è fascino puro. Lo innesca una conversazione con il direttore del museo Hermitage di San Pietroburgo, Michail Piotrovskij, che sottolinea: «La Russia non esisterebbe senza il Volga. È l’energia della patria, totem e destino. È l’autobiografia di un popolo. Quella placida massa d’acqua incorpora tutti, ci vivono genti di venti nazionalità diverse, dai popoli ugro-finnici ai nomadi meridionali. L’Islam, pensiamo al Tatarstan, è religione della tradizione e dell’identità russe quanto il cristianesimo ortodosso. In Europa, in America, vi riempite la bocca di multiculturalismo, ma le vostre città scoppiano d’odio. Noi, senza chiacchiere, includiamo tutti perché siamo una civiltà imperiale».

Dentro quel viaggio scritto, con in copertina il volto di un giovane diacono, ci sono le fiabe di Alexandr Puškin, la disperazione dei fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, il principe Myskin nell’Idiota, lo zio Vanja di Anton Cechov, Pierre Bezuchov di Guerra e Pace di Lev Tolstoj; un pozzo di diamanti per la creatività russa, che ha stregato compositori come Modest Musorgskij, Nikolaj Rimskij-Korsakov e Igor Stravinskij. E poi ci sono i pope del patriarca Kirill, con il loro carisma, custodi dell’anima russa, schierati con lo zar di oggi. I missili e i soldati diretti in Ucraina vengono spruzzati d’acqua santa dai prelati-crociati: come a dire che i soldati combattono sulla terra, gli angeli li benedicono dall’alto.

«È stato un viaggio con due propellenti: il bisogno di capire e il bisogno di spiegare», tira le somme Marzio Mian. «Anche perché da noi regna il pensiero unico. In Europa la Nato è diventata un dogma, azzardare critiche significa essere emarginati. Questo non accade nel mondo americano (io ho il passaporto statunitense) dove anche fra i liberal il dibattito è aperto, significativo, e le critiche sull’operato dell’amministrazione sono rispettate». All’eterno quesito sulla diffidenza russa nei confronti della democrazia, il grande padre liquido risponde con una frase sentita mille volte durante il viaggio nel cuore di tenebra: «Fuck the nineties». Si riferisce agli anni Novanta delle libertà e degli eccessi, quelli di Boris Eltsin. «È stato tra i periodi più drammatici della loro storia. Si sparava per le strade. Solo con Ivan il Terribile e dopo la Rivoluzione, durante la guerra civile, la Russia è stata così vicina al disfacimento. Per ricordarla i vecchi usano la parola “smuta”, il periodo dei torbidi». Lo scrittore francese Emmanuel Carrère, innamorato di quel grande paese, spiegò in questo modo alla fiera del libro di Torino la passione per l’uomo forte. Laggiù fra le mille anse del fiume rimbalza un detto da pelle d’oca: «Incontrare la morte non fa paura se sei attorniato da russi». Lo traduce Marzio Mian, arrivato con qualche certezza in più alla foce del Volga, dove la steppa è tostata dal sole: «La morte può essere orrenda, ma non se serve al popolo russo. Questa è la radice del loro patriottismo. Come dire: siamo meno pratici di voi, ma abbiamo un cuore più grande».

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