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November 26 2012
«Il colonnello aprì il barattolo del caffè e si accorse che ne era rimasto appena un cucchiaino. Una mattina difficile da cavar fuori, anche per un uomo come lui che era sopravvissuto a tante mattine come quella. Per cinquantasei anni – da quando era finita l’ultima guerra civile – il colonnello non aveva fatto altro che aspettare...». Anche Walter Veltroni, come il protagonista di Nessuno scrive al colonnello di Gabriel García Márquez, prepara il caffè. E lo appoggia sul tavolo in tazzine bianche e azzurre, di porcellana antica. «Le pizzette magari le porto dopo».
La luce gialla filtra dalle persiane nel salotto al primo piano del palazzo borghese, nel centro di Roma. Una stanza lunga, due divani, uno bianco e l’altro grigio, intorno libri: in fila tutti i Meridiani, uno è girato, quello di Eugenio Scalfari. Il tapiro dorato di Striscia la notizia fronteggia un quadro di Valerio Adami, glorioso pittore degli anni Sessanta: un uomo solo accanto alla scritta Pci. L’uomo Veltroni, invece, ride da una foto con la moglie e le figlie accanto a un disegno dechirichiano della piazza del Campidoglio deserta.
Non si sentono rumori in casa, la figlia Vittoria dorme ancora nella stanza accanto («Ha studiato tanto in questo periodo» sussurra quasi a scusarla), la moglie appare, gli sorride ed esce in silenzio. «Mi hanno sempre affascinato le assenze, i vuoti. Trovo nell’attesa una meravigliosa esplorazione».
Davanti a quel caffè l’ex líder máximo del Pd, il primo autorottamato della Terza repubblica, in camicia e pantaloni grigi aspetta. Di vedere il film che è stato tratto dal suo romanzo, La scoperta dell’alba, girato dalla giovane regista Susanna Nicchiarelli e in concorso ora al Festival di Roma, che ha portato sul grande schermo la storia della ricerca di un padre scomparso durante gli anni del terrorismo. Veltroni ha ospitato Panorama per guardare questa trasposizione del suo primo romanzo, che poi è un pezzo della sua vita.
«Mi piacciono i grandi sogni interrotti, le speranze naufragate, le fughe, le assenze...». Come adesso? «No, questo momento non ha il carattere epicopoetico, che è ciò che mi piace. Tutto è molto quotidiano, bulimico, persino un po’ volgare. È difficile raccontare la storia dei nostri tempi. Tempi troppo frammentati, senza elementi unificanti». Veltroni, maestro morettiano del sottrarsi, prova a ragionare su ciò che è accaduto dagli anni di piombo a oggi: «Perché quello» dice «è stato il nostro Vietnam. Eravamo in guerra, il terrorismo è entrato nelle vite di ognuno di noi e ha avuto a che fare con le ideologie dominanti che sono venute dopo. E poi, come sempre succede in Italia, c’è stata una grande rimozione, che ha prodotto un vuoto. È successo così con il fascismo e sarà così probabilmente anche per il passaggio che stiamo vivendo». Sullo schermo al plasma appeso alla parete scorre il film. «Amo il realismo magico a metà tra un racconto di Márquez e una puntata della saga Ai confini della realtà».
Roma 1981, le Br entrano all’università e ammazzano un professore, il migliore amico del padre della protagonista che è Margherita Buy. Quel padre dopo pochi giorni scomparirà misteriosamente. «È il tema che sta dentro la mia vita, mio padre è morto quando io avevo 1 anno, lui 38. Non ho neanche una foto con lui. Era una persona fantastica, contribuì alla storia della Rai, fu amico di Federico Fellini e di Ettore Scola, fu giornalista e scrittore di molte celebri sceneggiature. Quando sono diventato padre, ho sentito il bisogno di cercarlo, di farmelo raccontare da chi lo conosceva, di ricomporre i frammenti della sua identità. Per questo amo i vuoti e faccio invece fatica a raccontare le cose riuscite, compiute».
L’Italia, dice Veltroni, conserva una mentalità della difesa, della paura di perdere ciò che è stato conquistato: «Questa nostra società è una società emotiva, lo è sempre stata, sensibile alle pulsioni demagogiche e populiste. Così si ama Beppe Grillo, come si amò la Lega e Umberto Bossi. Reagisce al messaggio che arriva, semplifica quando non arriva un messaggio forte, convincente, autorevole, che dia speranza. E allora sceglie di pancia. L’Italia vive di rabbia, per questo è un paese immobile». Sceglierà di pancia anche alle primarie? «Sono una cosa strana le primarie. E poi non siamo qui per parlare del film?».
Sembra il ragazzino del romanzo, che nel film è una bambina e ha le stesse passioni dell’ex leader: «Italo Calvino e il basket, ma io non ero così perfettino». Eppure, i libri sono catalogati meticolosamente. In un angolo c’è uno scaffale dedicato ai romanzi preferiti: Philip Roth, J.D. Salinger, Osvaldo Soriano di Triste solitario y final, e Il Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry in tutte le declinazioni possibili. E poi Ian Mc Ewan: «Una delle cose più belle della mia vita è che compaio in un suo romanzo». Forse Espiazione o forse Sabato, non lo ricorda più. «Ecco il mio studio, dove scrivo», sedie thonet e un manifesto di Robert Kennedy che sovrasta il tavolo, come un santino protettore.
«Non so cosa farò adesso, tutti, anche i vecchi amici, non fanno altro che chiedermi cosa farò ora, ma davvero non lo so. La mia vita continua come prima. Giro, ieri ero a Perugia per un dibattito su Pier Paolo Pasolini. Mi piace scrivere e continuerò a farlo. Lo facevo anche quando avevo responsabilità pubbliche e ora che ho smesso con l’impegno della politica non volevo ci fosse un vuoto». Allora scriveva in aereo o in ascensore: «Ho sempre cercato di non avere solo una dimensione nella vita, questo ha reso meno tradizionale il mio percorso, però lo ha reso più sereno. La politica è stato un mezzo e non un fine. E adesso cercherò di scrivere le storie che mi popolano. La condizione giusta è né troppo sereno né arrabbiato. Devi avere una dose sufficiente di malinconia e di sogno».
Tra malinconia e sogno sorge la domanda: e Massimo D’Alema, l’eterno avversario? Com’è il vostro rapporto adesso? Sbuffa: «Ancora con questa storia: è un non problema da 10 anni, ecco. Che sofferenza con i giornalisti politici, ti chiedono le stesse banalità e rispondi con altre banalità. Restano attaccati ai soliti stereotipi: Nutella, figurine Panini, D’Alema…».
Invece ci sono cose, in Italia, che non sono banali: «L’Io so di Pasolini. In un paese che sembra come la sequenza di Yellow Submarine, dove la terra è un grande gruviera e si cammina sui buchi, se sapessimo chi ha ucciso Paolo Borsellino, chi ha messo le bombe a piazza Fontana, a Brescia, chi ha ammazzato Roberto Calvi. Se questi buchi fossero riempiti, tutto sarebbe più sicuro. Invece il passato non finisce mai».
Per Veltroni il terrorismo, sia rosso che nero, è un grande vuoto: «Ha stravolto la vita politica, ha impedito che si realizzasse un cambiamento in questo Paese. Se Aldo Moro fosse stato liberato, la storia sarebbe stata diversa. Non avremmo conosciuto le aberrazioni successive: lo strapotere del Caf, Tangentopoli, il berlusconismo. Avremmo avuto un’alternanza democratica post guerra fredda». Oggi quel vuoto secondo Veltroni è diventato un buco nero, «quello della recessione, una voragine, una guerra senza armi, ma che come il terrorismo colpisce la vita di ogni individuo. Siamo una società infelice, un paese infelice, che dopo anni di champagne, panettone e pacche sulle spalle si è trovato triste. E lei è felice?».
L’uomo che guarda la partita da fuori campo si sente solo. «La disperazione sociale di oggi è diversa da quella degli anni di piombo. È postideologica, individualistica, personalizzata. Lo si vede dalle forme di protesta come i suicidi, dai movimenti come Occupy che non sono più movimenti di massa. Noi andavamo in sezione: collettivi, assemblee. Oggi si sta su Twitter, su Facebook, strumenti di relazioni effimeri, alla fine
soliloqui, concentrati su se stessi».
Un attimo di vuoto, ma Veltroni si alza e torna con un carrello di pizzette, prosciutto, mozzarelline e analcolici. Apparecchia, si preoccupa che ci sia un piatto. Afferra una pizzetta, come fosse un salvagente, e riflette su quello che siamo e dove andiamo: «Ma lo sa che per molti sabati i ragazzi si sono dati appuntamento in piazza Cavour per picchiarsi, non c’erano motivi politici, solo violenza. Quando noi facemmo la Notte bianca, a nessuno successe nulla, tutti si sentivano inclusi. Noi reagiamo positivamente a stimoli positivi». E invece la politica di oggi? «Bisogna avere la capacità di andare controcorrente, non dire quello che gli altri aspettano di sentire o che si vuole sentire. A me piaceva enormemente Enrico Berlinguer perché andava contro: contro l’Unione Sovietica, proponeva l’austerità, portava il Pci ad allearsi con il mondo cattolico. E si beccava anche le contestazioni, quelli che andavano sotto Botteghe Oscure a urlare be...be...be. Ma se non c’è un disegno grande allora precipiteremo in piccole beghe di partito».
Si alza, controlla se la figlia si è svegliata. Accompagna la cronista alla porta e conclude: «La vita va raccontata. Perché la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». Anche questo scrive Márquez, maestro di realismo e di magia.