Lifestyle
November 04 2013
Torna in Italia Andy Warhol, genio fragile, da maneggiare con cura. Lo si espone (vedere il riquadro in alto), però con la solita baldanza, fiduciosi che il brand comunque funzioni. Perché lì dentro, in quel marchio, si gettano ancora un sacco di care, vecchie cose: "I Love NY", l’America pansessuale e trasgressiva anni 60 e 70, la Factory come la setta fedele a un guru inquietante, dalle pulsioni private imperscrutabili ma dalla voracità (di glamour, di successo, di danaro) lampante; l’autorizzazione a essere, sempre, attoniti, banali, superficiali; la devota riconoscenza dello star system; le nevrosi di uno zombie dalla parrucca d’argento che preconizza gli schemi basici del Grande fratello, e che fa «digrignare i denti agli esteti» traghettando prodotti da supermercato in un museo...
Per favore, basta con il crogiolarsi al sole un po’ malato di certe sue premonizioni ("In futuro tutti saranno famosi per 15 minuti") che, ripetute oggi, suonano come incitamenti a delinquere. Metteteci anche l’equivoco del Warhol spietato critico del consumismo e siamo fritti. È il trionfo degli stereotipi. Domanda: non ne abbiamo abbastanza? Risposta: forse c’è un altro Warhol, più attuale, più giusto, da ammirare.
Altrimenti tanto varrebbe lasciarlo davanti al plotone d’esecuzione di severi europei, come Marc Fumaroli, e non parlarne più. Per l’accademico di Francia, l’America seguì Warhol "nello sfruttamento della vacuità, della sterilità e della fredda ferocia insite nel dinamismo meccanico del suo lowbrow quotidiano: la comunicazione quasi afasica, l’encefalogramma piatto, il voyeurismo senza desiderio e senza amore, l’inferno delle immagini senza arte. Una parola famosa dell’ectoplasma: con chi preferite cenare? Con la tele".
Ora, questa storia del marchio andrebbe riveduta. Se si insiste nel vedere in Warhol solo la consacrazione di una bottiglia di CocaCola, si finisce anche con il marcare l’esaurimento del suo fascino. Oggi sappiamo che il marchio della Apple ha scalzato quello della bevanda dal suo stabile primato, e ciò significa che anche i brand cambiano funzione (figurarsi gli artisti). Che l’epoca dell’euforia consumistica è finita e che dietro la parola comunicazione si infilano altri valori: connessione, smaterializzazione, conoscenza.
C’entra Warhol con questa mutazione? Certo che c’entra. Forse è arrivato davvero il momento di consolidare una visione dell’artista americano come di un uomo immensamente spirituale, capace di accostare la morte degli esseri (suo grande, unico tema dominante) facendo di ogni volto un’icona imperturbabile, avvolta da una specie di fosforescenza: facce e fiori come folgorati dal flash sopra un buio di fondo. Colui che aveva paura di addormentarsi, giacché il sonno è troppo simile al morire, ha dato voce al suo terrore evocando l’idea di uno svanire dolce e inconsapevole nel nulla, e al tempo stesso lo ha arginato in una smagliante ripetizione di immagini, di un culto che funzionasse come svuotamento, consolazione. Certi bellissimi lavori di Warhol (perché è evidente la loro bellezza, inversamente proporzionale al gossip che prima l’accompagnava e che ora tace) sono diaframmi sottili tra il visibile e l’invisibile.
Una volta l’artista Robert Longo ha detto:"Ho la precisa sensazione che Warhol creasse per restituire un cuore a ciò che era quasi morto". È il suo retaggio, e ciò ci basta. Non ha fatto in tempo a invecchiare, a diventare magari malinconico, a trascendere il proprio tempo. Non come un suo amico, David Bowie, che oggi in Where Are We Now? ricorda tutta un’epoca e quella vita vissuta "stando a un passo dalla fine".