Dal Mondo
June 06 2022
La modalità comunicativa scelta da Maria Zakharova sarebbe strutturata su due elementi fondamentali, il deprezzamento del proprio interlocutore e la non risposta alle domande. La capacità di inserire una scelta intenzionale nei processi automatici verrebbe utilizzata per il mantenimento del controllo della situazione. Dal momento in cui il pregiudizio automatico si instaura prima ancora che si abbia la consapevolezza, può essere ridimensionato attraverso un atto intenzionale, ed è quello che sarebbe stato effettuato per mezzo della precisa scelta comunicativa trasmessa sia verbalmente che non verbalmente. L’analisi, nel corso dell’intervista, verrebbe infatti posta, dalla portavoce di Lavrov, sul processo di analisi dell’informazione, strategia che le avrebbe consentito di prendere consapevolezza dei propri bias cognitivi, con la cognizione che l’intenzionalità differisce dal controllo in quanto questa fa riferimento alla condizione necessaria per mettere in atto un’azione. La conoscenza dei processi automatici sarebbe quello che avrebbe reso possibile l’intervento di controllo presente nell’intero corso dell’intervista. Quando la meta viene attivata, il piano abituale per l’esecuzione della stessa verrebbe automaticamente collegato alle rappresentazioni mentali della finalità perseguita piuttosto che agli eventi ambientali, in maniera tale da riuscire a mantenere un controllo emotivo che non vada ad inficiare l’intento comunicativo, in quanto non vi è necessità di una scelta consapevole della strategia d’azione da seguire.
Lo stile di comunicazione utilizzato sarebbe quello strategico, in quanto la Zacharova, avendo ben chiari gli obiettivi di propaganda, si sarebbe dotata di una tecnica ben precisa, caratterizzata dal fatto che la consapevolezza della propria identità nei confronti dell’interlocutore fosse ben chiara. La tipologia comunicativa adottata sarebbe stata quella manipolatoria, avrebbe difatti alterato, distorto, trasmesso in modo parziale e non pertinente le informazioni. L’atteggiamento sarebbe stato mirato a dissimulare emozioni e sentimenti attribuendo all’interlocutore pensieri, desideri e intenzioni non proprie, oltre che generando in esso un senso di inadeguatezza, di vergogna e di vulnerabilità. Chi manipola perseguirebbe un obiettivo personale cercando di mutare le percezioni e il comportamento altrui con informazioni e metodi di convincimento ingannevoli. Il rapporto tra le parti non sarebbe alla pari. Chi utilizza una comunicazione manipolativa ascolterebbe, osserverebbe e comprenderebbe la realtà e i bisogni dell’altro per identificare i suoi punti deboli in modo tale da poterlo plagiare più facilmente. Quando venisse applicata in un contesto come quello di riferimento implicherebbe, da parte di chi la esperisce, buone capacità cognitive, pragmatiche, strategiche e di analisi. I giudizi morali di condotta verrebbero influenzati strutturando abilmente ciò con cui ci si confronta consentendo di far passare per giuste azioni deplorevoli. Sfruttare il principio di contrasto potrebbe far sembrare giuste attività molto dannose in quanto si potrebbe riuscire a far risultare il minore dei due mali moralmente giusto.
Una chiara differenziazione tra intenzione, consapevolezza, controllo ed efficienza, sarebbero gli elementi che avrebbero consentito importanti cambiamenti nel corso dell’intervista. Nel momento in cui veniva chiesto alla portavoce di ritornare all’argomento della domanda, la modalità comunicativa difatti cambiava divenendo presumibilmente passivo-aggressiva. Sarebbe stata presente una continua analisi dei fenomeni coinvolti nei processi che li compongono, intendendo con essa un’azione autodiretta volta a scegliere scientemente quali processi lasciare automatici e quali invece portare sotto l’aspetto dell’intenzionalità. Questi processi di sensibilità automatica alle informazioni correlate alle rappresentazioni accessibili (attivate) si tradurrebbero nell’attenzione selettiva con un importante impatto su come i fatti vengono inquadrati e contestualizzati. Sarebbero comparse infatti l’imposizione delle proprie idee, l’espressione di giudizi negativi e interpretativi e l’ignorare il punto di vista altrui. La rabbia e il disappunto non si sarebbero espressi in maniera diretta, ma con strategie ambigue e subdole. Nello specifico la rabbia sarebbe stata espressa prevalentemente nell’ambito non verbale e per mezzo di comportamenti verbali finalizzati a colpire e infastidire l’interlocutore in maniera non diretta. In questo modo si sarebbe potuto colpire l’altro senza apparentemente far nulla. Sarebbe subentrata una sopravvalutazione di sé con relativa sottovalutazione dell’interlocutore. Quest’ultimo aspetto avrebbe risposto anche alla necessità di deprezzare il proprio interlocutore per un fine ben specifico. Si consideri che l’intensità della reazione interiore a una condotta lesiva dipenderebbe dal modo in cui si percepisce la persona verso cui la propria azione è diretta. È più semplice controbattere senza provare disagio quando il proprio referente comunicativo viene posto ad un livello di inferiorità. In tal modo si andrebbe ad impedire l’attivazione di reazioni empatiche o emotive vicarie. Ponendo l’interlocutore su di un piano di inadeguatezza, l’autocensura per una condotta crudele risulterebbe essere disimpegnata, le offese verrebbero così separate dalle conseguenze. Nello specifico il meccanismo utilizzato sarebbe stato quello del “double-bind”, caratterizzato dal fare leva sul senso di inadeguatezza del partner comunicativo. Il doppio messaggio sarebbe stato espresso sia in termini di contenuti verbali che non verbali. Questa forma di manipolazione avrebbe reso l’interlocutore impossibilitato ad adeguarsi a quanto richiesto in quanto, nel momento in cui si risponde positivamente a un messaggio, automaticamente si risponde negativamente all’altro. Chi si trova coinvolto in questa tipologia comunicativa proverebbe conseguentemente un senso di inadeguatezza cagionato dal non sentirsi in grado di gestire la comunicazione del manipolatore. Nel momento in cui l’interazione basata sulla doppia costrizione non venisse riconosciuta e corretta questa diverrebbe destabilizzante. Tutte le componenti del sistema avrebbero operato in parallelo con livelli minimi di interferenza reciproca con la risultanza di un alto livello di funzionalità, quella che viene definita come “trasparenza funzionale” in cui si opera speditamente senza la necessità di conoscere i dettagli sul come si sta operando.
Il marcato uso del linguaggio eufemistico, oltre ad avere la funzione di moral disengagement, sarebbe stato abilmente utilizzato per non rispondere alle domande dell’interlocutore consentendo di deviare il discorso su fini propagandistici. Per mezzo del linguaggio eufemistico sarebbe quindi possibile mascherare atti reprensibili conferendo loro uno status di rispettabilità. Parandosi dietro a uno stile contorto, la condotta distruttiva riuscirebbe ad apparire benevola, sollevando quanti ne sono coinvolti dal sentirsi personalmente responsabili. Il largo uso di circonlocuzioni eufemistiche sarebbe stato fatto per distanziare gli agenti dalle loro azioni deleterie e, in tal modo, spersonalizzarli. Il mascheramento di attività nocive, per mezzo dell’utilizzo di eufemismi, potrebbe essere un’arma molto potente in quanto le persone si comporterebbero in modo più crudele quando le azioni aggressive venissero addolcite da un’etichetta nobilitante rispetto a quando venissero chiamate con il proprio nome. La mimetizzazione verbale maschererebbe quindi ogni attività che sollevi preoccupazioni morali. I giudizi morali di condotta verrebbero influenzati strutturando abilmente ciò con cui ci si confronta consentendo di far passare per giuste azioni deplorevoli. Coerentemente sarebbe stato scelto dalla Zacharova di perseguire la propria meta per tutto il tempo dell’intervista riuscendo nel compito presumibilmente per mezzo dell’associazione del fine propagandistico alla rappresentazione interna della situazione e, eventualmente, la struttura di meta sarebbe stata attivata dalla percezione delle caratteristiche della situazione. Le strutture di mete possono essere infatti essere attivate direttamente da rilevanti stimoli ambientali e le mete, una volta attivate, producono le stesse conseguenze messe in moto da una scelta consapevole o attraverso stimoli esterni.