Politica
March 04 2021
Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd la dicono lunga sulla sua gestione del partito che è oggettivamente difficile valutare in termini troppo lusinghieri. Lui, che era nato per rottamare il rottamatore Matteo Renzi, alla fine è stato a sua volta rottamato. E attenzione: si tratta di un problema strutturale. Al momento non è affatto chiaro se l'annuncio del passo indietro sia sincero o se si tratti invece di una mossa politica. Tuttavia, la situazione evidenziata dal suo post di commiato su Facebook risulta tutt'altro che lontana dalla realtà: il contesto di un partito sempre più dilaniato dalle faide intestine, con il segretario dimissionario che ha non a caso parlato di "guerriglia quotidiana".
Ora, è vero che nel Pd i coltelli (politicamente parlando) volano dai tempi della segreteria di Walter Veltroni (quindi da sempre). Ma è anche vero che Zingaretti ci abbia messo del suo. E non ci riferiamo soltanto ad alcune grossolane gaffe, come l'aperitivo milanese dello scorso anno all'inizio della pandemia. No, i problemi sono ben altri e di natura tutta politica.
Il Governatore del Lazio è asceso alla segreteria nel marzo del 2019: l'homo novus (si fa per dire) che avrebbe dovuto restituire il Pd alla sinistra, dopo la sbornia pop-democristiana del renzismo. Una missione che sembrava alla sua portata, visto soprattutto l'elevato numero di voti raccolto alle primarie. Eppure, questa segreteria non è mai decollata, per due motivi.
In primo luogo, la totale assenza di una visione. Un problema sostanziale, evidenziato dalla totale vacuità della retorica politica zingarettiana, che non ha mai trovato molto meglio da dire se non ripetere ad nauseam che bisogna «arginare l'odio delle destre e dei populisti». Una situazione che ha creato imbarazzo nella base dem e fornito a Crozza succoso materiale di imitazione. Inoltre, come se non bastasse, all'assenza di visione si è accompagnata l'assenza più totale di strategia politica. E, sotto questo aspetto, sono due gli errori madornali che il segretario dimissionario ha commesso.
Il primo risale alla crisi del governo gialloverde. Dopo che Matteo Salvini staccò la spina a quell'esecutivo, Zingaretti avrebbe oggettivamente avuto tutto l'interesse ad andare ad elezioni anticipate: avrebbe infatti aumentato i consensi del Pd (approfittando del calo che già all'epoca aveva interessato il Movimento 5 Stelle) e avrebbe potuto mettere definitivamente all'angolo la corrente renziana in seno al Nazareno. Del resto, non ci voleva un genio a capire che gli sarebbe convenuto. E – ricorderete – lui stesso si era speso nel ribadire che alleanze con i grillini non ne avrebbe mai fatte. Eppure, no. D'improvviso Renzi rientrò in gioco, gli strappò il boccino dalle mani e propose la creazione del governo giallorosso.
Zingaretti rimase spiazzato, tentennò e infine cedette. Una mossa politicamente suicida, che di fatto riconsegnò a Renzi il centro della scena, gettando le basi per la creazione di un esecutivo in cui si sapeva già da subito che il senatore di Rignano avrebbe fatto il bello e il cattivo tempo. Considerato a lungo come una sconfitta di Salvini e Di Maio, la nascita del governo Conte bis è stata innanzitutto una Caporetto proprio per il segretario dem, che da allora è diventato sempre più irrilevante, cercando invano di mettere il cappello a posteriori su un esecutivo che lui di fatto aveva subìto. E le giustificazioni di comodo (tipo il consueto argine all' "odio" delle destre) non hanno probabilmente convinto neppure il suo entourage.
Il secondo errore è cronologicamente ben più vicino. E chiama in causa la mancanza di abilità nel saper valutare adeguate strategie politiche. Anche da parte dei consiglieri del segretario (Goffredo Bettini in testa). Con la crisi del Conte bis (innescata, guarda caso, proprio da Renzi), Zingaretti si era infatti convinto che il governo successivo (che fosse un Conte Ter, un Draghi o qualche altra cosa) avrebbe necessariamente replicato la vecchia compagine giallorossa. O che al massimo si potesse arrivare alla "maggioranza Ursula" (tirando dentro Forza Italia). Ma si sa: gli schematismi troppo rigidi in politica possono costar caro. Ed ecco che Zingaretti non ha saputo prevedere la mossa leghista di apertura al governo Draghi. Una mossa che ha letteralmente spiazzato i vertici del Nazareno, mettendoli di fatto con le spalle al muro, davanti a un dilemma irrisolvibile. Dicendo sì a Draghi, Zingaretti ha detto sì a un'alleanza con la Lega, suscitando malumori nella base dem e nei quadri del suo stesso partito. Dicendo no a Draghi, si sarebbe tuttavia messo contro il Quirinale, passando per un irresponsabile. E così, anche stavolta, il segretario ha dovuto chinare la testa, subendo l'ennesimo schiaffo politico da parte del suo nemico di Rignano. Ridotto a pungiball politico di Renzi, Zingaretti è rimasto sempre più frastornato, incapace di prendere l'iniziativa e di anticipare le mosse degli avversari, portando il partito su una linea incomprensibile: una linea che non è né carne né pesce.
Eppure sarebbe ingeneroso e troppo facile gettare tutta la responsabilità di questa situazione sulle spalle del segretario uscente. Perché si tratta di un problema interno al Partito Democratico, che chiama in causa buona parte della classe dirigente dem. Gramsci diceva che il partito dovesse occuparsi della "formazione di una volontà collettiva nazional-popolare" e di una "riforma intellettuale e morale". Sempre più sradicato dai territori e dalle classi lavoratici, il Pd non è neppure più da tempo in grado di esprimere una visione ideologica (nel senso migliore del termine).
Zingaretti non è quindi la causa. È un sintomo. Il sintomo di una malattia politica che non si sanerà magicamente con un cambio ai vertici del Nazareno.