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Addio a Mario Vargas Llosa, il Premio Nobel che sfidò il potere con le sue parole

Addio a Mario Vargas Llosa, il Premio Nobel che sfidò il potere con le sue parole

Dall’infatuazione per Castro alla corsa con la destra: lo scrittore peruviano (e Premio Nobel) Mario Vargas Llosa è scomparso a 89 anni

Era il 1967 quando un romanzo della collana Narratori di Feltrinelli, dalla copertina verde, con cubitali titolo e nome dell’autore, conquistava i lettori con questo inizio. “‘Quattro’, disse il Giaguaro. Al chiarore incerto che il globo di luce diffondeva nel locale, attraverso le poche sfaccettature di vetro non ancora coperte di sudiciume, le espressioni dei visi si rilassarono: il pericolo era passato per tutti, salvo che per Porfirio Cava. I dadi erano immobili, bianchi contro il suolo sporco, e segnavano tre e uno”.
L’incipit, divenuto celebre, è quello del romanzo di ambiente militare “La città e i cani”, che fece conoscere in Italia lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, morto a Lima ieri, 13 aprile, all’età di 89 anni. A quel titolo – il primo dell’autore pubblicato in Italia – ne seguirono molti altri, con successo di pubblico e di critica. Per esempio “Conversazione nella Cattedrale” (non una chiesa alla T.S. Eliot: Catedral era uno dei bar più frequentati e malfamati della capitale peruviana), “La zia Julia e lo scribacchino”, “La Casa Verde”, “Pantaleón e le visitatrici”. Romanzi che imposero in Italia, e nel mondo, il nome di un scrittore incisivo e raffinato, di profonda cultura europea – “La città e i cani” portava in epigrafe un omaggio a Jean Paul Sartre -, latinoamericano nelle radici e nei temi (il suo dolente Perù), ma da non confondere con altri autori dell’America Australe, che proprio negli anni Sessanta gli italiani, per merito delle case editrici Feltrinelli ed Einaudi, stavano cominciando a conoscere.

Quel pugno con García Márquez

Vargas Llosa non era l’argentino Jorge Luis Borges, né il colombiano Gabriel García Márquez. Non aveva nulla da spartire con il peruviano José Maria Arguedas, intriso di cultura andina, e un altro suo connazionale, Manuel Scorza, morto in uno schianto aereo nel 1983. Vargas Llosa faceva partita a sé, in una non cercata solitudine, che lo distinse dai colleghi più consacrati alla concezione fantastica, quando non “indigena”, della letteratura. Nel 2010, primo peruviano, vinse il Premio Nobel per “la cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”. Nella realtà, si tuffò non solo con la penna, ma con tutto se stesso, facendo politica, fino alla candidatura per la presidenza della Repubblica nel suo Paese. Perse, la poltrona la prese Alberto Fujimori, che poi trasformò il Perù in una fosca dittatura, mentre infuriava la guerriglia di Sendero Luminoso. Vargas Llosa era di destra: corse alle elezioni con il Frente Democrático. Una posizione che gli tolse molte simpatie in quella vasta area di cultura marxista-leninista, quando non maoista e guevariana, che tanto influiva nelle vicende sociali e culturali di quel Continente. Aveva simpatie per la “lady di ferro” Margaret Thatcher e per il liberalismo in generale, a suo parere ricetta migliore del socialismo rivoluzionario, soprattutto quello in salsa latina. Ma da giovane – benché fosse nato ad Arequipa in una famiglia benestante, convinto che il padre fosse morto: era invece scappato con una tedesca, il futuro scrittore lo conobbe soltanto quando aveva già dieci anni – Vargas Llosa ammirava Fidel Castro e la sua rivoluzione, a suo modo di vedere lontana dalla plumbea realtà sovietica, dunque da sostenere. Poi, più avanti, aprì gli occhi. Quando scoprì che pure Cuba lasciava a desiderare, in quanto a libertà, non coltivò più sogni castristi. Pare che la questione – Castro sì, Castro no – fosse all’origine del celebre pugno che Vargas Llosa sferrò al collega García Márquez nel 1976, a Città del Messico, ma non è sicuro: vecchie ruggini private dividevano i due scrittori e forse il cazzotto derivava da lì.

In Spagna diventò marchese

Vargas Llosa aveva doppia cittadinanza: peruviana e spagnola (più altre onorarie). Si era trasferito in Spagna dopo la sconfitta nella corsa elettorale in Perù e re Juan Carlos I lo nominò addirittura marchese, nel 2011. Titolo che l’aristocratico scrittore accettò con piacere e diede un ulteriore tocco al suo perimetro di intellettuale “lontano” dal popolo, forse con la puzza sotto il naso, nella torre d’avorio di una raggiunta fama. Nulla di più falso. Vargas Llosa non smise mai, nei suoi scritti (molti saggistici), di prendere le distanze dalle derive antidemocratiche del populismo e del sovranismo. Era liberale, sì, ma appunto per questo amico della libertà e delle competenze che dovrebbero avere gli uomini che gestiscono il potere. Sapeva bene, da peruviano, quando sia sottile la linea che divide la buona politica da quella cattiva: quest’ultima porta nel baratro. Negli ultimi tempi era tornato a vivere nella sua Lima, in una casa con vista sull’Oceano Pacifico. “È morto in pace, circondato dalla sua famiglia”, ha detto Álvaro, uno dei tre figli (avuti dalla seconda moglie, Patricia: dal 2015 Bragqs Llosa era sposato con la terza, Isabel Preysler, ex moglie del cantante Julio Iglesias), annunciando che lo scrittore verrà cremato.

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