Il governo sta per finanziare con 400 milioni di euro il risanamento dell’area di Bagnoli (Napoli), ma basandosi su documenti vecchi di 17 anni e senza tenere conto della «pulizia» già realizzata. Prima sarebbe meglio disporre di rilievi scientifici sicuri.
Un tesoretto di 400 milioni di euro potrebbe finire incenerito negli altiforni di quel che fu l’ex Italsider di Bagnoli, terra maledetta che da trent’anni inghiotte e brucia soldi pubblici per provare a rinascere. Sono i fondi che il governo e Invitalia, proprietaria temporanea dei suoli, hanno deciso di investire per tentare l’ennesima e (come vedremo) forse superflua bonifica. Finanziamenti che il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, nella doppia veste di commissario straordinario, ha invocato a gran voce mentre è ancora in corso, nel capoluogo, l’ultimo stralcio del processo sulla rigenerazione ambientale dell’area ovest. Dettaglio non ininfluente rispetto alle dinamiche politico-istituzionali, perché, nelle pieghe del procedimento penale che si aprirà davanti alla Corte d’appello tra qualche settimana, si nasconderebbe lo scrupolo che quelle centinaia di milioni potrebbero essere altrimenti investiti, risultando inutile una nuova e più incisiva bonifica. Quel che è stato fatto agli inizi del Duemila con la società di scopo Bagnolifutura Spa, insomma, sarebbe, più che sufficiente.
A leggere gli atti del fascicolo giudiziario pare possa emergere che il presunto disastro ambientale sarebbe molto meno pericoloso di quel che ipotizzano il ministro Raffaele Fitto e l’a.d. di Invitalia, Bernardo Mattarella e tutto lo stato maggiore dell’Amministrazione partenopea. Come ha scritto il difensore di uno dei cinque imputati che dovranno affrontare un nuovo processo di secondo grado dopo il rinvio della Cassazione, che ha annullato le precedenti sentenze di assoluzione. L’avvocato Maurizio Lojacono ha messo infatti in rilievo che la Suprema corte ha affermato un principio che risulta dirimente in questa storia: non basta la prova logica per stabilire se un suolo sia contaminato o meno, ma sono necessari rilievi scientifici chiari e incontrovertibili.
Detto in altre parole: le chiacchiere possono andar bene in consiglio comunale o nelle interviste ai giornali, ma in tribunale servono i fatti. E i fatti, nel caso particolare, sono l’avvenuta conferma, da parte della Corte di Cassazione, della insussistenza della ipotesi di truffa consumata con l’approvazione delle varianti ai progetti di bonifica, che stabilirono che per una parte delle aree dovevano essere rispettati i limiti di inquinamento previsti per le zone commerciali in luogo di quelli in origine previsti per le aree residenziali. Per questo, secondo Lojacono, anche utilizzando i risultati dei carotaggi effettuati prima dal consulente della Procura (che nel 2009 sequestrò l’area ipotizzando che il risanamento affidato alla Bagnolifutura non solo non fosse stata realizzata a regola d’arte, ma che, in alcuni casi, avrebbe addirittura peggiorato la situazione) e poi dal perito del giudice, emergerebbe una realtà ben diversa dal paventato disastro ambientale.
Gli esami investigativi sarebbero stati infatti valutati tutti sull’originario progetto di bonifica, risalente a quasi un quarto di secolo fa, e non sulle varianti urbanistiche che hanno nel tempo rimodellato l’ex Italsider rispetto alle diverse destinazioni d’uso: residenziale, verde pubblico, commerciale e sportivo. Caratterizzata, ciascuna di esse, da un differente livello di «tollerabilità» ai parametri di inquinamento stabiliti dalla legge. Un’incongruenza che avrebbe avuto un effetto distorsivo sui risultati dell’inchiesta, perché gli oltre 2.700 carotaggi, effettuati a Bagnoli, sarebbero stati riferiti alla tabella più severa della normativa, che corrisponde alla destinazione d’uso abitativa, su cui si basava l’originario progetto di recupero ambientale.
Gli aggiornamenti del Pua (Piano urbanistico attuativo) arrivati dopo il 2006, anche alla luce degli interventi di recupero via via eseguiti, e le consequenziali soglie di inquinamento tollerabile sarebbero dunque rimasti solo su carta e non trasmessi ai documenti giudiziari. Rileggendo in questa prospettiva il lavoro degli inquirenti, secondo lo studio dell’avvocato Lojacono, non solo i suoli sarebbero stati risanati da Bagnolifutura già 15 anni fa, ma proprio non esisterebbe il rischio di un disastro ambientale che giustificherebbe una costosissima operazione di sbancamento dei terreni. I livelli di inquinamento (e non di contaminazione, come adombrato dagli investigatori), riscontrabili in alcune parti dell’area, rientrerebbero in una fisiologica presenza di sacche di degrado dovute a oltre ottant’anni di intensa attività siderurgica. Ma sembra che al Comune di Napoli nessuno abbia provveduto a nuove valutazioni in base agli attuali risultati del processo di Bagnoli, mentre imprenditori privati si sono detti disposti persino a investire notevoli capitali nella realizzazione di opere proprio in quell’area, apparentemente senza temere le negative implicazioni di un incombente disastro ambientale. L’unica urgenza pare allora essere quella di convincere il governo ad aprire i cordoni della borsa e far partire subito le gare d’appalto. Direbbe Totò: «E io pago!».