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Femminicidi, il ruolo delle madri nei casi di Ilaria Sula e Sara Campanella

Femminicidi, il ruolo delle madri nei casi di Ilaria Sula e Sara Campanella

Due storie diverse, legate dalla domanda: fino a che punto può spingersi una madre per proteggere suo figlio?

In un Paese che cerca ancora di fare i conti con l’orrore dei femminicidi, gli omicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella lasciano dietro di sé una scia ancora più inquietante. Non solo per la brutalità degli atti, ma per ciò che è accaduto subito dopo: due madri che, invece di condannare l’azione dei figli, li coprono, li aiutano, in un gesto che sfida la logica, la legge e l’etica.

A Roma, il 23enne Mark Antony Samson ha confessato l’omicidio della sua ex fidanzata, Ilaria Sula, 22 anni. Secondo le indagini, la madre, Nors Manlapaz, era presente durante l’aggressione e avrebbe successivamente aiutato il figlio a ripulire la scena del crimine. La donna è ora indagata per concorso in occultamento di cadavere.

A Messina, la stessa dinamica: Stefano Argentino, 26 anni, ha confessato l’omicidio della studentessa universitaria Sara Campanella, anche lei 22 anni. La madre, Daniela Santoro, ha detto agli inquirenti di essere intervenuta solo dopo una telefonata del figlio, preoccupato per un possibile gesto estremo. Eppure, un biglietto lasciato dalla donna – in cui si accenna alla necessità di allontanarsi per motivi di salute – lascia intendere un tentativo di copertura.

Due storie diverse, ma legate da una domanda terribile: fino a che punto può spingersi una madre pur di proteggere suo figlio?

Ne abbiamo parlato con la psicoterapeuta e criminologa Virginia Ciaravolo che ci ha aiutati a entrare nei meccanismi più profondi di queste dinamiche familiari.

Dottoressa, come si spiega il comportamento di queste madri?

«Purtroppo non sono casi così isolati come si potrebbe pensare. Esistono donne che diventano, nei fatti, “ancelle del patriarcato”: portano avanti, spesso inconsapevolmente, un sistema malato di potere e controllo maschile. Difendono i figli a ogni costo, anche se questi figli diventano assassini. È un istinto materno che si trasforma in qualcosa di autodistruttivo, e che molto spesso è alimentato da una lealtà familiare distorta. Nel caso della madre di Mark Antony Samson, ad esempio, è possibile che la donna abbia agito per negazione, per proteggere il figlio ma anche sé stessa dal crollo dell’immagine familiare. Non dimentichiamo il contesto culturale: in alcune culture il legame familiare è sacro, intoccabile. È possibile che si sia sentita “obbligata” a proteggere quel figlio, anche a costo di rendersi complice».

E nel caso della madre di Stefano Argentino? Anche lì c’è stata una forma di protezione attiva.

«Sì, ed è un caso più sottile.. Il fatto che abbia agito “per paura che il figlio si suicidasse” è un tentativo di giustificazione. Ma se davvero vuoi salvare tuo figlio, lo porti in caserma, lo affidi a un aiuto professionale. Non lo nascondi. Eppure, queste madri sembrano spinte da qualcosa di più grande del senso morale. È come se, salvando il figlio, cercassero di salvare sé stesse».

Quali meccanismi scattano? 

«C’è una identificazione profonda tra madre e figlio. Se lui è colpevole, allora forse lo sono anche io. Se lui è un mostro, io l’ho generato. È un pensiero devastante, che può spingere una madre a difendere fino alla fine ciò che ha creato, per non dover affrontare il peso di quella colpa».

Possiamo dire che si tratta di famiglie matriarcali? 

«Sì, direi proprio di sì. Sono famiglie dove è la madre a muovere le fila. Ma questo potere, in queste circostanze, non è forza: è una forma di controllo che si piega alla disperazione. Quando il figlio diventa “mostruoso”, è come se la madre stessa diventasse tale, o venisse vista così. E allora lo nasconde, lo protegge, lo giustifica».

Il caso di Saman Abbas, in un altro contesto culturale, ci mostra una madre che lascia uccidere la figlia. Il meccanismo sembra simile.

«Sì, è un caso diverso, ma la radice è simile: l’idea che il bene della famiglia venga prima di tutto. Anche a costo di sacrificare una vita. La madre di Saman abdica, si fa da parte, lascia agire gli uomini. Ma resta complice silenziosa. È l’altra faccia della stessa medaglia».

Cosa accomuna queste madri, al di là delle differenze culturali?

«Una cosa su tutte: la paura di perdere. Perdere il figlio, perdere il ruolo, perdere sé stesse. E così, si aggrappano all’unica cosa che sentono di poter ancora controllare: la narrazione, la verità. E cercano di riscriverla».

È corretto parlare di “amore malato” che la madre trasmette al figlio?

«Io eviterei. Quando parliamo di femminicidio, non parliamo mai di amore. L’amore non uccide, non ferisce, non controlla. Quelle sono dipendenze, ossessioni, patologie affettive. Ma non amore. E se cominciamo a usare espressioni come “amore criminale”, rischiamo di confondere le carte. Inoltre possiamo dire che i legami famigliari che nascono dentro dinamiche tossiche possono creare adulti che non sanno amare, ma solo possedere. E in alcuni casi estremi, questo porta a esiti tragici come quelli che stiamo raccontando».

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