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Quegli «imbucati» tra i profughi afghani

Quegli «imbucati» tra i profughi afghani

Dopo la precipitosa evacuazione dall’Afghanistan, due anni fa, sono migliaia i cittadini di quel Paese entrati in Italia. Ma tra chi aveva diritto di essere accolto, si scopre che c’è chi ha falsificato i documenti, chi fa causa per un ingresso rapido, persino chi ha contatti con i talebani o è un potenziale rischio per la sicurezza.


C’era una volta l’operazione Omnia Aquila… Nel maggio 2021, alla scadenza del termine per il rientro del contingente alleato dall’Afghanistan, i talebani, tornati al potere, vogliono liberarsi del personale civile e militare che ha prestato servizio per le strutture dei Paesi della Nato. Per mettere in salvo chi ha collaborato con l’Italia, nel giugno di quello stesso anno, il ministero della Difesa guidato da Lorenzo Guerini organizza una missione di evacuazione e, con un ponte aereo, a più riprese, arrivano in Italia oltre cinquemila afghani.

Una seconda azione, in collaborazione con il ministero dell’Interno e la Farnesina, però, è scattata subito dopo con la finalità di cercare di portare in Italia chi tra gli afghani era in contatto con il contingente italiano ma era fuggito in altri Paesi. L’hanno chiamata Omnia Aquila bis. Ed è tuttora in corso. È condotta e controllata dal Joint force headquarters, che è un comando ad alta prontezza operativa alle dipendenze del Covi, il Comando vertice interforze di Roma. Non c’è più la fretta che ha segnato l’operazione Omnia Aquila, quando reporter e cameramen immortalavano gli afghani che, pur di lasciare il Paese, si attaccavano perfino ai carrelli degli aerei in partenza. Ed era previsto che le richieste d’ingresso in Italia sarebbero calate nel giro di pochi mesi. Si stimava che al massimo 500 persone avrebbero chiesto di essere recuperate nei Paesi limitrofi, Pakistan, Iran e Turchia. In realtà, invece, da un certo momento si è registrato un anomalo incremento, che non è sfuggito all’intelligence. Il sospetto è che tra gli afghani si possa essere nascosto anche qualche infiltrato del governo talebano. Ed è cominciata la caccia agli «imbucati».

Dal novembre 2021, quando è scattata Omnia Aquila bis, sono stati già portati in Italia oltre 1.200 afghani che hanno collaborato con le forze armate italiane o con l’intelligence. Sono tutti arrivati nelle destinazioni finali, che prevedono alloggio e un posto di lavoro e si trovano per la maggior parte in Calabria, che tra le regioni ospitanti si attesta al primo posto con più di 300 ricollocazioni. Le criticità, a questo punto, si sono evidenziate principalmente su due piani: alcuni afghani, che sono già sul territorio italiano, hanno consegnato degli attestati con cui vorrebbero dimostrare di aver lavorato per l’Italia, ma i documenti sembrano falsi e, siccome non è possibile stabilirlo velocemente con esattezza, sono stati comunque ammessi al programma di protezione; altri, ancora all’estero, pur di entrare, non vogliono attendere le verifiche e, tramite avvocati italiani, hanno avviato delle cause giudiziarie per chiedere ai giudici di affrettare le operazioni.

Tra di loro c’è un afghano che sostiene di aver aspettato troppo in Iran, nonostante all’inizio non avesse chiesto di venire in Italia, ma di andare in Turchia. Dopo aver cambiato idea si è rivolto all’ambasciata italiana a Teheran. Una coppia che ha ricevuto il visto d’ingresso ad agosto, invece, ritiene di non dover rispettare le liste d’attesa. E ha fatto depositare un’istanza contro il governo italiano in tribunale. Un terzo caso riguarda una richiesta di accesso agli atti, dall’estero, sulle operazioni di evacuazione dell’agosto 2021. È il Covi a occuparsi di quello che in gergo operativo chiamano «vetting», ovvero i controlli per accertare che ogni singolo afghano sia effettivamente stato un collaboratore del nostro Paese ma, soprattutto, che non abbia contatti con i talebani. E proprio il Covi ha già predisposto una prima barriera, evidenziando come molte delle richieste, «almeno otto su dieci», spiega a Panorama una fonte dell’intelligence, sembra non avere le carte in regola. «Alcuni vengono indicati dai vertici militari, che chiamano e ci chiedono di chi occuparci tra loro» conferma un addetto del Covi. «Purtroppo in molti non hanno mai collaborato con le forze armate italiane, ma stampano degli encomi o dei documenti e noi non sempre riusciamo a verificarne l’autenticità».

Sembrano fantasmi. Di loro non c’è traccia nei registri di chi si occupava dei contratti. E soprattutto chi è passato per le agenzie di lavoro interinale non risulta essere mai stato censito. «In alcuni smartphone» raccontano ancora dal Covi, «abbiamo scoperto che c’erano memorizzato numeri di talebani». Ma sono entrati comunque in Italia. Oltre a chi potrebbe essere in contatto con i talebani si sospetta che anche i loro nemici, i gruppi afghani dell’Isis (in particolare dell’Islamic State Khorasan Province), potrebbero provare a lasciare il Paese tentando un ingresso in Italia. E sulle scrivanie degli analisti del Comitato di analisi strategica antiterrorismo, formato da 007 e forze di polizia, ci sarebbero già alcuni dossier su potenziali minacce.

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