Chi decide se una vita, per quanto malata, «è degna di essere vissuta»? Nel caso della bambina inglese, lo ha stabilito un giudice, contro la volontà dei genitori. E in una società che teorizza la libertà di «andarsene», ma non quella di continuare a esistere, la sentenza è stata inappellabile.
Siamo sempre lì: alla «vita indegna di essere vissuta». Non tiriamo fuori i nazisti, l’Aktion T4, il piano del regime per rifilare l’eutanasia a disabili e persone affette da malattie genetiche. Bastano i severi moniti del Papa contro la «cultura dello scarto». Fatto sta che torniamo sempre lì: chi decide se una vita è «indegna di essere vissuta»? A Indi Gregory (otto mesi), ad Alfie Evans (nemmeno due anni), a Charlie Gard (11 mesi e 24 giorni), ci ha pensato un giudice. In Gran Bretagna funziona così: medici e famiglie sono in disaccordo? Le Corti si pronunciano sul «miglior interesse» del minore. Che, per qualche motivo, quasi mai coincide con la volontà dei genitori. Mamme e papà sono figure sospette: propugnano l’accanimento terapeutico. Cagionano sofferenze superflue. Il «migliore interesse» di quei bimbi è morire. E Indi è morta, all’1.45 della notte tra il 12 e il 13 novembre. «Sono riusciti a prendere il suo corpo e la sua dignità» ha detto il padre Dean «ma non potranno mai prendere la sua anima».
Indi, nata il 24 febbraio con una rara sindrome da deperimento dei mitocondri – inguaribile come hanno precisato tutti – era ricoverata al Queen’s Medical Center di Nottingham. Ad agosto, i sanitari hanno comunicato la loro decisione: nel suo «miglior interesse» bisognava staccare il macchinario che le consentiva di respirare. La coppia che l’aveva messa al mondo ha adito le vie legali. Finché, il 30 ottobre, l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma s’è offerto di occuparsi della piccina. Secondo il legale della famiglia, l’ex senatore leghista Simone Pillon, l’équipe del nosocomio vaticano avrebbe garantito trattamenti palliativi, senza quei patimenti fisici che atterrivano i medici inglesi. Il 2 novembre – Giorno dei morti, amara coincidenza – il giudice dell’Alta Corte britannica, Robert Peel, ha negato il trasferimento, ordinando lo stop al respiratore per le 15 del giorno successivo. I genitori hanno tentato un ulteriore ricorso. Pensavano addirittura di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
L’esecuzione della sentenza è stata sospesa fino al 4 novembre, allorché anche l’appello è stato bocciato. Il 6 novembre, il colpo di scena: il Consiglio dei ministri italiano ha conferito a Indi la cittadinanza. Il nostro Paese si mosse così già nel 2018, per Alfie. Fu inutile. È stato inutile pure in questo caso, benché si sia attivato il console a Manchester, Matteo Corradini, divenuto tutore della connazionale. Invocava un’interlocuzione con justice Peel. Roma, infatti, insisteva per il trasporto della sua cittadina al Bambino Gesù, ai sensi della convenzione dell’Aia. Niente da fare. Inascoltata, l’11 novembre, la preghiera del Pontefice. La piccola è stata spostata solo in un hospice, dove le hanno messo una mascherina con ossigeno «a tempo determinato» .Vietato rianimarla se fosse entrata in crisi respiratoria. Alla faccia dell’orrore per le sofferenze, nell’estubarla le hanno sganciato, per sbaglio, le cannule con cui le veniva somministrata la terapia del dolore. Giorgia Meloni, che si è esposta in prima persona, ha provato a scrivere all’omologo di Londra, Rishi Sunak. Non le ha mai risposto. Peel, invece, al console ha risposto. Sì: la mattina dopo la morte di Indi. «Date le circostanze, assumo che non voglia procedere…». Quando si dice: umorismo inglese.
Qualcuno, in Italia, ha accusato la destra di aver strumentalizzato la tragedia. Salvo lanciarsi in un’altra strumentalizzazione. La Stampa, Michele Serra, Tiziana Ferrario: stavano lì a domandarsi per quale diamine di motivo il governo si fosse fissato con una malata inguaribile, anziché pensare a dare la cittadinanza ai figli degli immigrati. Sfregio postumo, sorto da un equivoco: chi è inguaribile non è incurabile. Nel senso che di queste «vite indegne» ci si può prendere cura, anziché brigare per staccare la spina. Era anche la lotta dei Gregory: una lotta per la dignità umana. Alla loro figlia, invece, il martelletto di una toga ha negato financo il diritto di morire in casa. «Quando una malattia non si può guarire, non significa che il malato non si possa curare». L’ha ribadito Andrea Moscatelli, il medico del «Gaslini» di Genova che seguì Tafida Raqeeb. Pure per lei, nel 2019, i medici del Royal London hospital avevano disposto l’interruzione dei supporti vitali. Era spacciata, secondo loro. La differenza è che per la bambina, che all’epoca aveva 5 anni, i giudici diedero l’autorizzazione all’espatrio. Risultato? Tafida è ancora viva. Nel 2020 è uscita dalla terapia intensiva. Oggi, in Liguria, riceve cure palliative. Magari la sua non è una vita sfavillante. Ma poteva un magistrato stabilire che non era degna di essere vissuta?
Quella vicenda avrebbe dovuto indurre alla prudenza i sacerdoti del culto scientista. La virostar Andrea Crisanti ha contestato la concessione della cittadinanza a Indi, perché nel Regno Unito «sono state inventate la genetica medica e la terapia genica». Se i dottori di Nottingham volevano farla finita, dovevano per forza aver ragione. Per l’editorialista della Stampa, Eugenia Tognotti, contestare le sentenze di Peel significava non rendere «un buon servizio alla scienza». Ma quale? Quella dei camici bianchi del Bambino Gesù non lo era? Tutti ciarlatani? Ed era scienza quella dei dottori di Tafida? Abbiamo la controprova: avrebbero lasciato morire una bambina che potevano salvare. Dov’era, allora, la scienza di cotali luminari?
Indi è morta. La sua eredità no. Come ha scritto sul quotidiano La Verità Pietro Dubolino, la battaglia per la vita diventa ora battaglia per la libertà. Libertà «di» e libertà «da». Libertà di curarsi come di non curarsi, anzitutto. Con il Covid, c’è stato l’obbligo della vaccinazione. Era per proteggere i fragili, si giustificavano. Come mai, dunque, la fragile Indi non poteva essere protetta? Sulle colonne del Corriere della Sera, Antonio Polito non ha potuto fare a meno di rilevare la contraddizione di una società che rivendica l’autodeterminazione nella morte, accettando, nondimeno, «la negazione della libertà di vivere». C’entrano i soldi? In parte. L’asfissia di quella neonata è diventata una questione ideologica. Ecco da cosa dobbiamo liberarci: dall’ideologia della morte, che mira a cancellare la scomoda visione del sofferente, a sgravare la collettività dal costo umano, prima che monetario, di prendersi cura dell’improduttivo.
Ovviamente, ci dobbiamo liberare anche dall’«idolatria del diritto» (di nuovo Polito), da un potere giudiziario divenuto onnipervasivo. Eugenio Borgna, veterano della psichiatria, se l’è domandato, indignato: «Che diritto avevano i giudici inglesi di staccare le macchine contro la volontà della famiglia?». Bastava rivolgersi all’associazione italiana che si occupa di ricerca sulle malattie mitocondriali, Mitocon. Il presidente, Marco Marmotta, si è interrogato su chi fosse titolato a decidere del «miglior interesse» di Indi. E ha esortato le autorità britanniche a rispettare «la volontà di questa famiglia», difendendo il suo «diritto di scegliere per la vita della figlia». Per dire: a Charlie Gard, il tira e molla legale costò l’ultima speranza. I genitori volevano mandarlo a New York, dove gli assicuravano trattamenti innovativi e promettenti – a proposito, prof. Crisanti: non erano gli inglesi i più bravi di tutti? L’ostinazione del Great Ormond Street Hospital di Londra, unito ai rituali giuridici, alle lungaggini dei vani ricorsi giunti fino alla Cedu, ha fatto perdere tempo prezioso: a un certo punto era diventato troppo tardi per qualsiasi terapia sperimentale.
Si può pensare che, tutto sommato, sia normale ricorrere a un tribunale in presenza di un conflitto. Ma nel regno delle sentenze, che fine fa la patria potestà? Che fine fa l’intangibilità dell’unione familiare, se l’amore di mamma e papà ha meno valore dei calcoli di una toga? È in questo modo che l’idolatria del diritto diventa idolatria dello Stato. Poi: che cosa diventa la professione medica? Che resta del giuramento d’Ippocrate – «Non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte» – se il dottore si trasforma in un burocrate del decesso? Un «tanatocrate», un amministratore, che oggi decide il destino del malato terminale e magari domani dell’anziano, dopodomani del depresso? E, nel frattempo, dell’infante «inguaribile»? Infine, ammettiamolo: l’infrangibile debolezza di Indi ha riaperto interrogativi esistenziali. Ha un senso vivere, nonostante il dolore degli innocenti? C’è un Dio ad amarci e aspettarci? Significherà qualcosa se è stato proprio l’ingorgo kafkiano della giustizia terrena a spingere Dean Gregory alla conversione, finché, al capezzale della piccina, lui e la moglie l’hanno fatta battezzare. «Il tribunale mi sembrava un inferno» ha raccontato quel giovane dai tratti spigolosi, con il corpo massiccio ma gli occhi affaticati. «Era come se il diavolo fosse lì. Ho pensato che, se esiste il diavolo, allora deve esistere Dio. Ho visto com’è l’inferno e voglio che Indi vada in paradiso». Dove non decide justice Peel.