Con furti e rapine, stanno allargando i loro traffici. A partire da Bari.
Furti, rapine, estorsione, traffico di armi e di uranio. Sono i principali ambiti di interesse criminale di un’organizzazione poco conosciuta ma profondamente radicata in Italia: la mafia georgiana. L’unica inchiesta che ha toccato questo mondo che si muove sottotraccia, ma che fa sentire profondamente la sua ingombrante presenza all’interno delle varie comunità che arrivano dal Paese ex sovietico, risale al 2012. Era il 6 gennaio di quell’anno quando, a causa di una guerra tra clan, a Bari (una delle città, non a caso, con il più alto numero di georgiani), venne ucciso un appartenente al cosiddetto «clan Tbilisi». A freddarlo un commando di quattro uomini (appartenenti al clan rivale dei «Rustavi»). Alla fine, al di là delle condanne emesse nel 2017, i giudici non hanno riconosciuto la componente mafiosa, come invece chiedeva l’accusa. «I tempi erano prematuri», riflettono oggi con Panorama gli investigatori che se ne occuparono.
Fatto sta che da allora l’organizzazione si è mossa indisturbata, mai toccata da altre indagini. Gli interessi, però, sono rimasti gli stessi. E anche il giro di affari. Che si fonda soprattutto sui furti in appartamento. L’errore, però, è pensare che i vari «colpi» siano indipendenti gli uni dagli altri. E invece no. Dominano gerarchie e rituali molto precisi. «L’organizzazione» spiega un affiliato, «è divisa in quattro livelli. Il grado più alto è quello di «ladro in legge». In georgiano: ganabi. È una figura che ricorre in tutte le mafie ex sovietiche: il capo supremo. Chiamato così perché non riconosce mai la legge se non quella interna al gruppo criminale. I ganabi vengono «marchiati» con tatuaggi che diventano, in questo modo, la carta d’identità di ogni mafioso. Nel momento in cui si diventa «ladro in legge» gli vengono impresse quattro, emblematiche «rose dei venti»: due sulle spalle e due sulle ginocchia. «Vuol dire» spiega ancora un membro dell’organizzazione «che non ci inginocchieremo mai davanti alla legge di uno Stato». A decretare la nomina di un ganabi c’è la shodka, la riunione di tutti i «ladri in legge» (negli anni si sono tenute anche in Italia). C’è, poi, l’obshak, la cassa comune in cui vengono versati i soldi delle varie attività criminali, a iniziare proprio dai furti.
Mentre la refurtiva segue una strada diversa: ci sono ricettatori – italiani, spesso collegati alle mafie locali – che rivendono tutto ciò che viene loro consegnato. Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: secondo quello che rivela un affiliato, uno dei capi di questa organizzazione ormai diventata transnazionale, vive in Italia. Parliamo di Merab Dzhangveladze, detto Jango, già arrestato in passato e condannato a quattro anni per associazione a delinquere. Oggi risiederebbe in una lussuosa zona di Bari. Assolutamente indisturbato.