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Mafia nigeriana Spa

Mafia nigeriana Spa

Le decine di arresti in tutt’Italia certificano una ramificazione profonda, dal traffico di droga alla tratta dei migranti, dal pizzo sul lavoro nero al controllo della prostituzione. E l’imponente flusso di denaro generato è il prossimo obiettivo.


Look da rapper americano, collane d’oro e sneaker bianche. Dj Boogie, nonostante i suoi 50 anni, viaggiava l’Italia suonando musica hip hop e african beat in locali e feste private. Non faceva nulla per nascondersi e le sue performance erano ben pagate. Anche con fondi pubblici. Nel 2012 aveva ricevuto un finanziamento di 2.000 euro dal Comune di Ferrara per organizzare un evento musicale. Ma Emmanuel Okenwa, questo il suo vero nome, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Bologna era il capo della mafia nigeriana che comandava tra l’Emilia Romagna e il Nord-Est.

Abile a mixare sound diversi ma ancora di più nel governare centinaia di uomini disposti a eseguire ogni suo ordine, Dj Boogie aveva scalato i vertici dell’associazione criminale chiamata Viking, una delle ramificazioni mafiose che da Benin City, città nigeriana, stanno conquistando piazze e traffici illeciti in Italia. Nella sua lavatrice i poliziotti della Squadra mobile di Ferrara hanno trovato il machete per uccidere un membro della gang rivale Eiye, da due anni in guerra con i Viking e, alfine, sgominata.

Dj Boogie è uno dei 70 africani raggiunti da altrettanti ordini di custodia cautelare emessi il 28 ottobre nell’ambito di due inchieste delle Direzioni distrettuali antimafia di Bologna e Torino. Ventuno le province interessate dai blitz delle rispettive Squadre mobili, coordinate dal Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia.

A Torino gli investigatori, che hanno arrestato decine di affiliati, hanno scoperto la cosiddetta eminenza grigia dell’organizzazione, detta «cult»: Chukwudi Stanley Amanchukwu, il boss di 46 anni nel cui appartamento di corso Giulio Cesare nel 2019 si era tenuto il vertice tra clan da cui è emersa la figura del nuovo reggente, il connazionale Chuks Okafor. I capi di imputazione contestati, oltre all’associazione di stampo mafioso, occupano mezzo codice penale: omicidio, rapina, traffico di droga e di armi, spaccio, sfruttamento della prostituzione, tratta di esseri umani, estorsione, falsificazione di documenti e altri reati minori.

Raccapriccianti le intercettazioni telefoniche nel corso delle quali gli investigatori hanno ascoltato le «schiave» del clan costrette a partecipare a orge ispirate a riti vudù e a subire violenze per costringerle a pagare il pizzo o per essere affiliate loro stesse e sperare così di passare da carne da macello a «belle», fino a «queen», cioè a conquistare uno status sociale mafioso e a comandare loro stesse sulle più giovani immigrate avviate alla prostituzione.

Riti e passaggi di consegne per i quali dalla Danimarca, dalla Svizzera, da Brescia e dal Sud Italia si sono riuniti sotto la Mole i capi, chiamati «don», dei clan federati. Ma lo spaccio nelle piazze e le prostitute sui viali di periferia sono solo alcuni dei traffici che la mafia nigeriana gestisce. I maggiori profitti ormai arrivano dal traffico internazionale di droga. I nigeriani infatti hanno scalzato le organizzazioni tradizionali e si sono inseriti nelle rotte che dalla Colombia e dal Messico, via Africa, riversano tonnellate di cocaina nei porti del Nord Europa e in quelle balcaniche per l’eroina e le metanfetamine che arrivano dall’Oriente e dal Medio Oriente.

Anche nelle frodi informatiche e nella clonazione di carte di credito sono ormai più abili dei criminali dell’Est Europa, mentre la loro galassia di cellule operanti in tutto il continente, collegate e talvolta coordinate da vertici che risiedono a Benin City, assicurano il pacchetto completo ai clandestini che dal continente africano vogliano arrivare magari fino in Svezia, ovviamente passando dall’Italia, porta d’ingresso quasi esclusiva.

Un business, quello della tratta di migranti, che ripaga due volte, assicurando il capitale umano da reimpiegare nello spaccio di droga e nella prostituzione, oppure nel lavoro nero gestito da caporali, anche loro d’origine nigeriana. Una «spa» ormai ben rodata che accumula ricchezze da riciclare, secondo le analisi della Direzione nazionale antimafia che la definisce la mafia etnica più potente nel nostro Paese, anche nell’acquisto di immobili e dei cosiddetti «african shop», i cui gestori sono poi costretti a pagare il pizzo ai rispettivi cult di zona.

La ricchezza dei traffici illeciti fa delle associazioni mafiose nigeriane che operano in Italia una vera multinazionale. Secondo Banca d’Italia, nel 2019 le rimesse degli immigrati verso la Nigeria hanno superato i 108 milioni di euro. Un incremento boom rispetto ai 74 milioni del 2018. Eppure i nigeriani regolarmente residenti in Italia, nel 2018, secondo l’Istat erano appena 117.000.

Evidentemente la gran parte di quei flussi di denaro è frutto di attività illecite. E si tratta solo dei trasferimenti fatti alla luce del sole. Lo Sco della polizia ha rilevato importanti invii di valuta verso il Paese d’origine attraverso i money transfer e i cosiddetti «trolley man», viaggiatori che prendono gli aerei verso l’Africa con valigie zeppe di banconote.

Quattro sono le «cupole» che da un lato si contendono il monopolio criminale a colpi di machete e omicidi e dall’altro, sotto la direzione dei capi supremi che dirigono gli affari da Benin City, collaborano tra loro: Eiye, radicati in Inghilterra e nei Paesi Bassi, Black Axe, forti soprattutto in Francia e Germania, i Maphite, anche loro in Germania e in Scandinavia, infine i Viking, che adesso sembrano avere il pieno dominio in Italia.

L’ascesa della mafia nigeriana è stata inarrestabile. Ma da quando, durante un blitz del 2019, la polizia ha scoperto in un covo la Bibbia verde, sorta di «costituzione» mafiosa con regole, riti di affiliazione e codici cifrati, gli investigatori hanno potuto meglio comprendere la struttura di questa associazione criminale.

«Nel nostro Paese ci sono almeno un migliaio di affiliati» spiega a Panorama il prefetto Francesco Messina, direttore centrale della Polizia anticrimine. «In Sicilia e Campania, addirittura, i cult si pongono in posizione di assoluta parità e autonomia rispetto alle organizzazioni della malavita locale. A Castel Volturno, in provincia di Caserta, la posizione di forza che ha raggiunto la mafia nigeriana le consente di svolgere le proprie attività senza entrare in conflitto con i Casalesi».

Contro questa criminalità si stanno però ottenendo alcuni, importanti risultati: «Da gennaio 2019 a oggi la polizia ha condotto 10 operazioni che hanno portato in carcere 250 membri dei clan con l’accusa di associazione mafiosa, da Padova a Catania, da Bari a Bologna» aggiunge Messina. Ma ora l’obiettivo è indagare andando oltre i territori di competenza. «Da due anni abbiamo avviato protocolli con Europol e con la Nigeria per scambi di informazioni e collaborazioni nelle indagini, che oggi devono essere transnazionali, come lo è questa organizzazione» prosegue Messina. «Un funzionario della polizia è distaccato presso l’ambasciata italiana in Nigeria con competenze nella lotta alla tratta di essere umani, mentre gli investigatori della Nigerian police force lavorano nei nostri uffici a Roma, essenziali soprattutto nella fase di traduzione delle intercettazioni».

E Messina anticipa le prossime mosse per un contrasto a livello europeo: «Dobbiamo ricostruire e aggredire i flussi finanziari internazionali per colpire il patrimonio dell’organizzazione». Perché quando si parla di mafia, qualunque siano origine e provenienza, l’approccio insegnato da Giovanni Falcone resta sempre attuale.

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