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Oman e Mafia, grosso imbroglio nel sultanato

Oman e Mafia, grosso imbroglio nel sultanato

Un gruppo di calabresi vicini alla ’ndrangheta ha truffato alcuni notabili dell’Oman vendendo loro un immobile senza averne la proprietà. Ma adesso i raggirati chiedono giustizia.


Se non si trattasse di ’ndrangheta, la storia sarebbe perfetta per un sequel di Totò d’Arabia o della Banda degli onesti. Un gruppo di calabresi, capitanati da tal Giovanni Barone, personaggio in affettuosa amicizia coi clan del Vibonese, piomba a Mascate, la capitale dell’Oman, e travestiti con turbante e caftano raggira tre persone di alto lignaggio del Sultanato, sfilando loro un milione di euro. Come nella scena in cui il «principe della risata» tratta la finta vendita della Fontana di Trevi a uno sprovveduto turista americano, così Barone e soci hanno convinto le vittime ad acquistare le quote di un lussuoso complesso immobiliare a Budapest, il Dohany Residences. Quote che, manco a dirlo, non hanno mai posseduto. Sembrava il colpo perfetto tanto che, quando la Procura di Catanzaro ha arrestato un bel po’ di ’ndranghetisti, un anno fa, non era stato possibile perseguire i truffatori perché erano risultati vani tutti i tentativi di contattare i signori del Golfo per la firma della querela, condizione di procedibilità necessaria dopo l’introduzione della riforma Cartabia. Invece, nell’ultima udienza preliminare di qualche settimana fa, è arrivata la sorpresa: l’avvocato Massimiliano De Benedetti ha depositato la denuncia dei truffati (tra cui un viceministro) con contestuale costituzione di parte civile. Adesso, giustamente, rivogliono i propri soldi.

Facile a dirsi. I magistrati hanno accertato che sono andati dispersi in mille rivoli. Un po’ sui conti correnti degli imputati, un altro po’ investito in uno yacht. Tanto altro ancora semplicemente dissipato in giro. Eppure gli indizi per fiutare l’imbroglio c’erano tutti. I calabresi, accompagnati dall’avvocato ungherese Edina Margit Szilagyi, avevano proposto una operazione finanziaria davvero assurda: in cambio di un prestito da un milione di euro, i sedicenti uomini d’affari si erano impegnati a vendere agli ignari truffati per appena tremila euro il 30 per cento della società Veritas, presunta controllante della Dohany Apartmann Kft, a sua volta titolare dell’omonimo complesso immobiliare di Budapest.

Contravvenendo platealmente al proverbio che sul denaro è quasi impossibile fregare un arabo, gli omaniti si erano fatti ingannare e avevano pagato, nel giro di una settimana, la somma richiesta con tre diversi bonifici da 333.333,33 euro ciascuno. In un batter d’occhio, la banda di Barone ha fatto sparire il bottino. L’imprenditore sospettato di essere un procacciatore d’affari per il clan Bonavota-Sant’Onofrio si è preso circa 395 mila euro. Altri 310 mila sono rimasti invece all’avvocatessa che ne ha usati 245 mila per acquistare lo yacht «Nelly Star», in rada in Olanda, e lasciando per sé 65 mila euro di «provvigione». Altri «regali» sono finiti ai complici, mentre 230 mila euro sono stati prelevati, poco a poco, al bancomat e ad altri sportelli bancari. Alla fine gli inquirenti hanno scoperto che, in due settimane, la gang era riuscita a distrarre dalla Veritas 996.911,78 euro. Si potrebbe dire, un record mondiale di «lancio del malloppo». Allo scadere dei nove mesi gli omaniti non solo non si sono visti restituire il prestito, così com’era previsto nel contratto, ma hanno iniziato a sospettare delle cattive intenzioni dei calabresi. Barone è stato tuttavia formidabile a mantenere in piedi il raggiro. Non è sparito mai del tutto, è sempre stato più o meno raggiungibile con una mail o una telefonata. Solo che, per un motivo o per un altro, non è più riuscito a tornare nel Sultanato per saldare il conto.

All’amica avvocatessa spiega in una conversazione intercettata quando ormai sono trascorsi tre anni dall’intrallazzo: «Gli puoi tranquillamente rispondere che io sto trattando con loro per la restituzione della mia parte del 50 per cento di 500 mila euro…». Ovviamente, l’uomo non rimborserà nulla. In un’altra chiamata, Barone sbotta: «Edina, io non me lo ricordo quello che è stato fatto con questi soldi, ma non ha importanza… l’importante è vedere quello che è stato prelevato e giustificato…». Cioè, nulla. La Procura di Catanzaro – all’epoca guidata da Nicola Gratteri, oggi a capo di quella di Napoli – è andata a colpo sicuro. Gli inquirenti scrivono infatti che il conto della Veritas appariva «configurato, rispetto a un normale conto aziendale, caratterizzato da entrate e uscite connesse alla genetica attività produttiva, come un mero conto di “rimbalzo” per provviste provenienti da investitori esteri». Insomma, un Iban truffa e getta. Solo leggendo i giornali, gli omaniti si sono poi resi conto in che mani sono finiti. E hanno scoperto chi è davvero Barone. Il «cervello» della banda, con un passato da ausiliario dell’Arma dei carabinieri, è soprannominato lo «sbirro» e la Direzione distrettuale antimafia di Milano, nell’ambito dell’inchiesta «Tenacia», lo ha inquadrato come stretto collaboratore di un «finanziere prestato alla ’ndrangheta» con il compito di gestire le aziende delle cosche in Lombardia. A Genova, è spuntato pure nell’indagine «Tramonto» sulle infiltrazioni dei Bonavota nei cantieri edili in Liguria. Poi, sulla direttrice Budapest-Mascate, il salto di qualità con la truffa «formato export»…

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