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Mostro di Firenze: quelle foto scomparse nel nulla

Mostro di Firenze: quelle foto scomparse nel nulla

Che fine hanno fatto 17 immagini scattate dai due francesi uccisi agli Scopeti nel 1985? Potrebbero essere decisive per la verità, ma la Procura di Firenze pare non trovarle più.


Una Procura sott’accusa. Su un caso di cronaca, peraltro, scolpito nella memoria collettiva: quello del Mostro di Firenze. Potrebbe accadere a breve. La vicenda ruota attorno ad alcuni reperti che un pool di avvocati richiede ormai da anni, senza avere la possibilità di entrarne in possesso. Elementi che potrebbero scagionare i cosiddetti «compagni di merende» e indirizzare le indagini verso un altro soggetto, molto lontano dal profilo di Pietro Pacciani, e mai incredibilmente valutato dagli investigatori. Anche perché emerge un ulteriore dato importante: quei reperti non sono mai stati a disposizione degli avvocati – incredibilmente – perché la Procura di Firenze, che al tempo li sequestrò, pare non riesca più a trovarli.

Per capire fino in fondo di cosa stiamo parlando dobbiamo tornare al settembre 1985, quando qualcuno uccide una coppia francese che aveva messo una tenda in una piazzola di sosta lungo la Statale 67, in località Scopeti, nelle campagne fiorentine di San Casciano in Val di Pesa. I due ragazzi si chiamano Jean-Michel Kraveichvili, 25 anni, e Nadine Mauriot, 36 anni, e sranno le ultime vittime delle 16 trucidate dal serial killer sin dal 1968. Ed è proprio su questa scena del crimine che, negli anni, si sono raccolti gli indizi maggiori. Elementi determinanti per i vari processi che hanno segnato il caso di cronaca nera più famoso della storia italiana. Una vicenda che ha condizionato l’immaginario comune, ed è stata declinata negli anni in film, documentari, libri. E, soprattutto, in teorie di ogni tipo sulla reale identità dei colpevoli. Questo anche per via di uno strano paradosso mediatico: «L’intera l’opinione pubblica ritiene che il mostro sia Pietro Pacciani» spiega uno dei più profondi conoscitori del caso, Paolo Cochi, consulente della difesa del presunto omicida già al tempo e oggi consulente dei familiari di alcune delle vittime, «eppure tecnicamente lui è morto come imputato, non come condannato».

È così. La storia processuale attesta come dopo la condanna in primo grado all’ergastolo nel 1994, Pacciani venga assolto in Appello nel 1996 per non aver commesso il fatto. Il 12 dicembre 1996, la Cassazione annulla l’assoluzione e dispone un nuovo processo d’appello, che tuttavia non viene mai celebrato a causa della morte dell’uomo il 22 febbraio 1998. Diversa la sorte dei due «compagni di merende» Mario Vanni e Giancarlo Lotti – che veste anche i panni di super-testimone, dato che è l’unico che accusa Vanni, Pacciani e sé stesso di essere colpevoli – per i quali le sentenze diventano definitive nel 2000. «Ma non per tutti i casi» insiste ancora Cochi, che poco crede alle ricostruzioni finora offerte dalla magistratura. «Per tre duplici omicidi non è mai stato individuato un colpevole».

Tra i tanti altri filoni di indagine, tutti puntualmente archiviati, nel tempo sono state coinvolte personalità disparate, da ex legionari a servizi segreti. Fino a oggi. Quando Paolo Vanni, nipote di Mario Vanni che intanto è venuto a mancare, ha dato mandato agli avvocati Walter Biscotti e Antonio Mazzeo di presentare istanza di revisione del processo per la condanna dello zio. Tutto ruoterebbe attorno alla presunta inattendibilità di Giancarlo Lotti, riconosciuta anche in alcune pronunce del Tribunale di Firenze. È Lotti, infatti, che racconta agli inquirenti di aver assistito all’uccisione dei due francesi agli Scopeti: avrebbe visto prima Vanni con il coltello tagliare la tenda dove dormiva la coppia, dunque Pacciani entrare con la pistola. Questo racconto, però, potrebbe rivelarsi totalmente inventato.

«Pare che il taglio sulla tenda ci fosse ben prima dell’omicidio» spiega a Panorama l’avvocato Mazzeo. «E questo potrebbe risultare da alcune foto che i francesi scattarono ovviamente prima di essere uccisi». Si tratta di 17 fotogrammi che nell’immediatezza delle indagini furono sequestrati. Ed è qui che emerge il giallo attuale: «Noi non vogliamo far altro che capire se questo taglio, come sembrerebbe, fosse già presente sulla tenda, cosa che ovviamente scagionerebbe subito Vanni, facendo emergere l’inattendibilità di Lotti». Il punto, però, è che la richiesta avanzata dagli avvocati da ormai quattro anni si scontra con il muro della Procura che non consegna tali reperti, insieme ad altre diapositive e alla macchina fotografica Nikon dei francesi.

Il motivo? Pare non si trovino. È tutto scritto, nero su bianco, in un documento della Procura di Firenze dello scorso 9 febbraio e vergato dallo stesso procuratore capo Filippo Spiezia: «Ad oggi, degli atti richiesti in copia dall’Avv. Mazzeo, non risultano ancora reperiti i n. N.l7 scatti fotografici della coppia francese di cui al verbale 11.9.85 ore 09,00 del Nucleo Operativo CC Firenze». Per questa ragione la Procura stessa ha deciso di rigettare «la richiesta relativa al rilascio degli scatti fotografici […] in quanto il reperto non risulta ancora rinvenuto». Una posizione singolare, tanto più che soltanto pochi giorni dopo, il 14 febbraio, a pronunciarsi è stata la Corte di assise del Tribunale di Firenze che ha ordinato alla Procura la restituzione di tutti i beni riferibili alla coppia francese, al di là di quale sia il faldone in cui dovrebbero essere conservati. Insomma, un cortocircuito difficile da comprendere. E che spinge qualcuno a chiedersi se ci sia dolo nell’atteggiamento della Procura.

«Non mi spingo a dire tanto» puntualizza Cochi «però di sicuro ci sono molti lati da chiarire. C’è stato un pm, Paolo Canessa, che ha preso in mano il caso nel 1984 e ha avuto disponibilità e possesso esclusivo del materiale sul mostro di Firenze fino al 2017, quando è andato in pensione. Anche quando è stato promosso procuratore capo a Pistoia, e dunque in altro ruolo e in altra città, ha inspiegabilmente continuato a mantenere in mano le deleghe. Sicuramente ha contezza di tutto questo materiale». A questo punto le tappe appaiono segnate. Gli avvocati si rivolgeranno ai Gip che per ultimi si sono occupati del Mostro che verosimilmente disporranno il dissequestro dei reperti. «E allora ci rivolgeremo di nuovo alla Procura» continua Mazzeo «perché chi ha il diritto di sequestrare, ha anche il dovere di custodire e di rispondere di eventuali smarrimenti: parliamo d’altronde di materiale privato di proprietà dei familiari delle vittime». E se anche in quel caso non dovesse essere restituito quanto di dovere? «In caso di mancata restituzione si agirà a norma di legge», aggiunge Mazzeo. Fuori dal gergo legale: la Procura potrebbe finire sotto accusa.

Il dettaglio non è di poco conto. Perché se davvero tutta la storia dei «compagni di merende» dovesse rivelarsi un buco nell’acqua, si tornerebbe al punto di partenza. E tutti ricomincerebbero a chiedersi chi si nasconde dietro al Mostro. Da notare come, a oggi, una pista incredibilmente mai battuta esiste. Dobbiamo tornare al 1984. È il primo ottobre quando i carabinieri della compagnia di Borgo San Lorenzo, nel Mugello (luogo peraltro di ben due duplici omicidi), scrivono un’informativa, la numero 279/27, in cui viene raccontato un particolare non di poco conto: il 5 febbraio 1965, si dice, era stata rubata una Beretta calibro 22 presso un’armeria del paese. Una pistola mai più ritrovata. Ebbene, i militari notano che quell’arma trafugata possa essere «messa in relazione alle indagini relative alla serie dei duplici omicidi che da anni vengono perpetrati nella provincia di Firenze». Sono i carabinieri, già nel 1984, ad affermarlo. Non solo. Nel rapporto indicano una persona precisa, con nome e cognome, presunto autore di quel furto. Un uomo che fino a metà degli anni Sessanta risiedeva nel Mugello, per poi trasferirsi a Firenze. Ma c’è di più: nell’informativa si legge che il tizio era stato anche denunciato dall’Arma di Firenze Rifredi alla Procura della Repubblica «per reati contro la libertà sessuale». E ancora: nel giugno 1966, durante le indagini proprio per il furto all’armeria, subì una perquisizione durante la quale si rinvennero armi e munizioni, nonché due cartucce calibro 22 e 10 bossoli dello stesso calibro. Reperti – anche questi – che purtroppo non è stato possibile rintracciare. «La cosa davvero strana è che questa persona non è mai stata inserita nella famosa lista dei sospettati creata e redatta dalla Squadra Anti-Mostro. Di fatto questo soggetto non è mai stato preso in considerazione». Una figura, inghiottita fino a ora nel tempo, che ha un nome e un cognome ben precisi. E che, secondo voci che si rincorrono con sempre più insistenza nel Mugello, avrebbe a lungo lavorato proprio negli ambienti giudiziari.

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