E se facessimo una ciclabile sullo stretto di Messina? Il progetto per il ponte era in altissimo mare ma l’allora ministra delle Infastrutture, Paola De Micheli, già lanciava l’audace suggerimento. Del resto, non c’è transizione ecologica senza mobilità dolce. Corsie per le bici a tutto spiano e a qualsiasi costo: in ogni città, paese o luogo. Anche laddove l’utilità pare dubbia e i benefici sembrano risibili. Solo il Pnrr prevede 565 chilometri di piste urbane e altri 746 di piste turistiche. Bisogna fare in frettissima: comuni e regioni hanno tempo fino a giugno 2026. Così, tanti si sono lanciati in imprese spericolate ed esperimenti arditi. Con sprechi e ritardi clamorosi. Tanti automobilisti si lamentano per carreggiate ridotte e percorsi inutilizzati. Molti amanti delle due ruote dribblano pericoli e improvvisazione. Del resto, i lauti finanziamenti europei hanno convinto frotte di amministratori a rendere ciclabile persino il superfluo e l’impervio, centrando la solita eterogenesi dei fini: chilometri di asfalto abbandonati e ulteriore cementificazione.
Il progetto più faraonico viene svelato nel lontano 2016. A Palazzo Chigi c’è allora l’inarrestabile Matteo Renzi, lesto a informare: «Da piccolo imitavo Beppe Saronni. Era il mio idolo». È il suo governo a finanziare il sistema delle ciclovie nazionali turistiche: dieci itinerari sterminati, dalla Chioggia-Gargano alla Lagonegro-Pachino, per «attraversare il paesaggio italiano tra bellezze naturali e archeologiche». Seimila chilometri, in totale. Costicchia, certo: 750 milioni, spiega il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio. Però, insomma, ne vale la pena. Chi meglio di lui, tra l’altro? Il giorno dell’insediamento si presenta in sella a una fiammante due ruote bianca, pedalando senza mani come gli esperti corridori. È un fuoriclasse pronto alla volata finale: «Nelle nostre città va invertita completamente la gerarchia: priorità a pedoni e ciclisti» avverte. «Gli altri, invece, devono esser in secondo piano». Nove anni dopo, la Corte dei conti certifica che dobbiamo ancora scollinare. Le ciclovie nazionali hanno ritardi incolmabili. Ed esborsi incontrollati: una media di circa 323 mila euro al chilometro, il doppio del normale.
Tra i progetti finanziati, per dirne uno, c’è pure il Grande raccordo anulare delle biciclette di Roma. Nome in codice: Grab. Missione: rivaleggiare con la tangenziale più intasata d’Italia. L’anello ciclabile, lungo una cinquantina di chilometri, toccherà i luoghi significativi della capitale: dal centro alla periferia. Costo: 16,3 milioni. Già nel 2016 la sindaca pentastellata, Virginia Raggi, annuncia fremente: «È un grande passo verso una mobilità più sostenibile a Roma». Cinque anni dopo, viene eletto Roberto Gualtieri. E al primo punto del suo programma per l’ambiente, campeggia ancora il Grab. Dopo ulteriori rinvii, il piddino assicura: sarà pronto entro il Giubileo. Invece, niente. I lavori sono partiti solo lo scorso luglio: otto anni dopo il roboante proclama.
Non viaggiano con maggior speditezza nemmeno i 150 chilometri di ciclabili da fare e rifare. La pista della «Conoscenza», che collega la stazione ferroviaria Termini all’università Sapienza, viene inaugurata lo scorso dicembre in pompa magna. Il sindaco tiktoker, come lo chiamano in Campidoglio vista la sopravvenuta passione per i social, inforca la bici raggiante. Non gocciolerà di sudore, certo. Il percorso è lungo appena 750 metri. Per realizzarlo c’hanno messo, però, tredici mesi: un po’ meno di due metri al giorno. Con questo sprint, l’ambizioso intento generale sarebbe completato tra duecentoquattordici anni. Nella spasmodica attesa, i romani si godono le corsie già realizzate a suon di milioncini. Come quella di via Tuscolana: macchine parcheggiate ovunque, curve sinuose, improvvise strettoie, cantieri in corso. Sembra perfetta per una puntata di «Giochi senza frontiere».
Milano vive simili tormenti. Il patema più grande è la ciclabile di corso Buenos Aires, celebre via dello shopping meneghino. Una linea chilometrica che costeggi una via trafficatissima. L’hanno fatta cinque anni anni fa. La stanno rifacendo adesso, dopo incidenti mortali e polemiche infinite. I lavori dureranno (altri) venti mesi e costeranno un (ulteriore) milione e mezzo, in arrivo dal solito Pnrr. In città, comunque, ci sono 328 chilometri destinati a chi va in bici: solo un terzo sono delimitati dai cordoli, come impone il nuovo codice della strada. La metà, invece, è tracciata con una linea a terra, tra macchine che sfrecciano e moto che zigzagano. A volte, le piste sono persino «promiscue»: passanti e ciclisti insieme, per la reciproca gioia.
Si vorrebbe abbondare pure a Napoli. Il sindaco Gaetano Manfredi, presidente dell’Anci, è un campionissimo della transizione ecologica verbale. Napoli è l’ultima città italiana per chilometri destinati alle bici. Eppure a novembre 2024 viene decorata con l’«Urban Award 2024», per il progetto «Adotta una ciclabile». Il premio, casualmente organizzato dall’Anci, è un fulgido esempio di collaborazione tra pubblico e privato. Viene assegnato proprio mentre la battagliera associazione Napoli Pedala denuncia che la vittoriosa pista di viale Kennedy versa in condizioni disastrose: vernice cancellata, asfalto deteriorato, segnaletica sbiadita, percorso a ostacoli. Manfredi, però, rilancia: 14 milioni del Pnrr saranno destinati a realizzare in città altri 35 chilometri di nuove ciclabili. Quisquilie, rispetto alla ben più contenuta Foggia, che comunque potrà contare su ben 23 chilometri destinati allo scopo, per cui sono stati stanziati sei milioni. Il capoluogo pugliese si appresta così diventare la capitale italiana delle due ruote. L’obiettivo è epocale: trasformare «un mezzo di locomozione domenicale» in un «vero e proprio mezzo di trasporto». Auguri.
I fondi europei baceranno anche la costiera amalfitana. Ben ventuno milioni di euro serviranno per realizzare la corsia che andrà dal lungomare di Salerno al castello Angioino Aragonese di Agropoli. Frotte di visitatori e residenti pronti a inforcare le due ruote. Il caotico regno del governatore campano, Don Vincenzo De Luca, si candida a diventare il ventisettesimo cantone svizzero. Pure in questo caso, speriamo non finisca come la Salerno-Paestum: dopo i dodici milioni di euro sborsati, è ormai abbandonata. Ora ci riprovano in grandissimo, con le ciclovie nazionali dedicate ai viaggiatori: 750 milioni per 6 mila chilometri di piste. La Corte dei conti, però, già segnala ritardi incolmabili e costi esorbitanti.
Il progetto più faraonico rimane quello sul lago di Garda: 161 chilometri di passerelle d’acciaio sospese. Nel 2016, viene annunciato da Delrio: «Una cosa bella e buona destinata a chi ama un turismo sereno». Spesa iniziale: 64 milioni di euro. Sei anni dopo, il preventivo lievita di cinque volte. Ma il totale, assicura il Coordinamento che unisce tutti gli ambientalisti, da Italia Nostra al Wwf, prevede che il conto finale sarà almeno di 1,2 miliardi. Lo scorso gennaio presenta così un nuovo esposto sull’aumento dei costi nel tratto del Trentino occidentale. Appena 5,5 chilometri, alla modica cifra di 84 milioni: 15 a chilometro, 42 volte la media nazionale. Con le associazioni ecologiste denunciano anche «gravi problematiche idrogeologiche e ambientali, nonché i rischi per l’incolumità pubblica».
«Un progetto fantastico» esulta invece Danilo Toninelli, indimenticato ministro delle Infrastrutture nel governo giuseppino, a metà luglio del 2018. Intanto, inaugura i primi due chilometri della ciclovia. «È la più bella d’Europa se non del mondo» segnala. Notevole, però, anche la «Ciclovia del sole», che percorre tutta l’Italia. I gialloverdi la inseriscono persino nella manovra per il Sud. Il solito De Luca coglie l’occasione per l’ennesimo sfottò: «Una pista dal Brennero a Palermo. E vabbuo’, nun se pò, dài. Immaginavo già Toninelli che camminava sulle acque dello Stretto di Messina». Meglio ancora: che pedalava a bordo di una bicicletta, come sogna De Micheli, sul ciglio di una spettacolare ciclabile.