Per un ritardo procedurale, la Cassazione annulla la confisca dei beni ai responsabili del disastro ambientale nelle campagne del Napoletano. Ed è come se liquami e fumi velenosi non ci fossero mai stati.
Chi dice che il denaro non puzza non è mai stato nella Terra dei fuochi, la lingua di campagna tra le province di Napoli e Caserta imbottita di ogni genere di inquinamento. Da queste parti la memoria del dolore è tra le pochissime cose che non è andata in fumo. Così, quando pochi giorni fa la Corte di cassazione ha deciso di restituire i 200 milioni di euro confiscati alla famiglia Pellini, dinastia che si è arricchita con l’emergenza rifiuti, le lancette dell’orologio sono schizzate all’indietro di quasi vent’anni. All’epoca in cui la Campania era soffocata dalle buste di monnezza che ammorbavano l’aria e divoravano alberi e frutti, e nulla sembrava potesse invertire il maleficio.
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha deciso di inviare gli ispettori nel Tribunale di Napoli per capire come sia possibile che uno dei più importanti provvedimenti giudiziari di quella oscura stagione, che aveva portato a espropriare un impero a chi era stato riconosciuto colpevole di disastro ambientale, sia stato cancellato con un tratto di penna. Il tesoro è stato riconsegnato perché la confisca in Corte d’appello è arrivata troppo tardi, ben oltre i 18 mesi previsti tra le sentenze di primo e secondo grado. La legge conosce ragioni che la giustizia non conosce. Gli imprenditori Salvatore, Cuono e Giovanni Pellini sono ritornati in possesso di tre elicotteri, 49 conti correnti, 250 fabbricati, società attive nel campo dei rifiuti urbani e industriali, della ristorazione, della distribuzione di carburanti e del noleggio di trasporto aereo. E ancora di auto, camion e furgoni. Beni che la Guardia di finanza e la sezione Misure di prevenzione del Palazzo di giustizia partenopeo hanno ritenuto proventi di una serie infinita di reati.
È dalla notte dei tempi che la giustizia gira attorno al «casato» che ha fatto fortuna con le discariche. Nel 2003 iniziano le prime perquisizioni nella sede della società ad Acerra (Napoli). Nel 2006 le indagini accertano che i loro fanghi tossici, invece di essere smaltiti secondo le rigidissime norme di tutela ambientale, vengono rivenduti come fertilizzanti ai contadini. Un elicottero della Forestale filma fiumi di percolato (l’acqua di scolo dei rifiuti) che, dagli impianti dei Pellini, finiscono nei Regi Lagni, i canali costruiti 400 anni fa dai vicerè spagnoli per la bonifica idraulica dei terreni, e da lì direttamente in mare. Come se non bastassero quelli campani, i Pellini trattano pure i rifiuti provenienti da altre regioni, come la Toscana e il Veneto; solo che invece di riciclarli in modo sicuro, li pressano e comprimono nelle cave dismesse del Napoletano tra Giugliano, Bacoli e Qualiano trasformandole in bombe ecologiche.
Gli approfondimenti investigativi consentono di scoprire che l’impianto di compostaggio gestito dalla famiglia è «assolutamente carente e inidoneo sotto il profilo tecnico» benché sia stato promosso, a seguito di «verifica favorevole da parte dei tecnici dell’Arpac» (l’Agenzia regionale ambientale), a pieni voti. Condizione che consente ai Pellini di contrattare non solo con le amministrazioni locali ma di fare affari con l’allora commissariato di Governo per l’emergenza rifiuti. Diventano famosi, a quel tempo, due pastori che, nel giro di qualche anno, vedono sterminato il loro gregge di duemila pecore a causa dell’avvelenamento dei terreni e delle falde acquifere e decidono di vendicarsi con esposti a raffica all’autorità giudiziaria. Tra il 2015 (appello) e il 2017 (Cassazione) arrivano le condanne a sette anni per disastro ambientale per i tre fratelli Pellini che, però, evitano il carcere grazie all’indulto e alla riforma garantista della Consulta sui servizi sociali. Ma l’impero è andato, scatta la confisca. L’Amministrazione comunale di Acerra propone di usare quei 200 milioni per bonificare ciò che i Pellini hanno infettato. Il sogno s’infrange però sul recente verdetto della Cassazione.
È lo sconforto. Don Maurizio Patriciello, prete coraggio del Parco Verde di Caivano, sceglie tre aggettivi: «Siamo allibiti, nauseati e indignati». Legambiente parla di «ferita aperta». Annuncia una interrogazione parlamentare, invece, il deputato Gianpiero Zinzi, capogruppo della Lega in commissione Ambiente e componente dell’Antimafia. «Al di là degli aspetti procedurali che tocca ai tecnici del ministero valutare nella loro giusta dimensione, resta lo sgomento per una decisione che vanifica vent’anni di impegno di donne e uomini delle forze dell’ordine e della magistratura per restituire fiducia e coraggio a chi vive in quel che un tempo era la Campania Felix». «Ora la priorità resta la necessità di bonificare le aree inquinate» conclude, «e di impedire che soggetti, provenienti da un passato da dimenticare, provino a ripulirsi per rimettersi in gioco». Sarebbe un tradimento inaccettabile.