Chissà se Donald Trump ha pensato alle conseguenze di un possibile cambiamento di posizione degli Usa nei riguardi della Nato. E in particolare all’impatto sulla vendita degli F-35, almeno fintanto che non sarà pronto il nuovo F-47. Una cosa è certa: i suoi alleati stanno mettendo in discussione la loro eccessiva dipendenza dalle armi prodotte negli Usa e già alcuni progetti esistenti per caccia di sesta generazione come lo Fcas e lo Gcap, vanno in questa direzione.
Seppur con tutti i problemi di gioventù, di forniture e di software, il programma Lockheed Martin F-35 JSF Lightning II ha rappresentato uno sforzo globale basato su cooperazione e fiducia, ha creato valore e posti di lavoro – in Italia, a Cameri (Novara), c’è lo stabilimento che assembla gli esemplari destinati all’Europa – ma tale realtà industriale potrebbe diventare vittima delle minacce di Donald Trump, spingendo le Difese delle nazioni partner a rendersi indipendenti.
Per non parlare delle esternazioni riguardanti l’annessione della Groenlandia alla Danimarca e la trasformazione del Canada nel 51° stato americano, anche perché queste sono nazioni che già utilizzano questo jet di quinta generazione e hanno necessità di parti di ricambio come di aggiornamenti software prodotti negli Stati Uniti. Ciò anche per una ragione che è alla base dell’efficienza dell’aeroplano: essa dipende dalla condivisione rapida e puntuale di dati.
E se la fiducia negli Stati Uniti cala, molte delle nazioni che basano la loro strategia di difesa dello spazio aereo sullo F-35, potrebbero rivalutare la loro “dipendenza” e programmare acquisti altrove, rivolgendosi alla Svezia oppure alla velleitaria Francia che non vede l’ora di piazzare i suoi Dassault Rafale o, in futuro, la versione da esportazione del nascente Fcas.
Nel breve periodo nessun Paese che attualmente ha in forza gli F-35 probabilmente lo abbandonerà immediatamente, ma Germania e Canada potrebbero modificare i loro recenti ordini, mentre i paesi della Nato che stavano ipotizzando ulteriori acquisti dagli Usa potrebbero guardare altrove nel medio e lungo periodo.
Ne è un esempio la Germania, che ha in programma di acquisire 35 esemplari dello F-35A sia per la supremazia aerea, sia per mantenere la capacità di trasportare armi nucleari (statunitensi), missioni che attualmente vengono effettuate dalla restante flotta di – quasi obsoleti – velivoli Tornado. Ma se gli Stati Uniti ritirassero le loro armi nucleari dalla Germania, Berlino sarebbe costretta a considerare l’acquisto del francese Rafale nell’attesa degli Fcas e quindi dovrebbe fare affidamento sul deterrente nucleare francese.
Il Regno Unito, per esempio, ha in forza trenta dei 138 esemplari di F-35 pianificati, ma tale fornitura è da riconfermare nei prossimi anni e in virtù di quanto rapido sarà lo sviluppo del nuovo Gcap (che è fatto insieme con Italia e Giappone), potrebbe dirottare verso questa soluzione parte di quel denaro.
Ed anche se nazioni come l’Olanda e l’Italia hanno sempre ribadito il loro sostegno al programma F-35 (noi perché li assembliamo, l’Aja perché ha ricevuto 40 dei 52 jet ordinati), qualsiasi riduzione delle commesse porterebbe a un aumento dei costi unitari di produzione dell’aeroplano. Non è un caso che il ministro della Difesa olandese Ruben Brekelmans, ieri a Parigi abbia dichiarato ai giornalisti:
“È nell’interesse di tutti noi assicurarci che il programma F-35 rimanga operativo, che continui ad avere lo stesso successo che ha adesso, e non vedo alcun segno di un passo indietro da parte degli Stati Uniti.”
Da questa situazione era nata la questione del “fantomatico interruttore” con il quale gli Usa potrebbero inibire l’uso degli F-35 altrui, questione immediatamente negata persino dagli svizzeri, che sul sito governativo ha pubblicato un comunicato stampa in cui dichiara che le forze armate federali possono far funzionare il jet in modo indipendente e che non c’è mai stato alcun “kill switch” in mano a Washington.
L’unica cosa possibile per lo Zio Sam, in caso di dissidi, sarebbe rallentare il flusso dei ricambi e bloccare aggiornamenti software forniti da sistemi basati su cloud e residenti negli Stati Uniti. Ottenendo una degradazione delle prestazioni dei velivoli.
Ma in una dichiarazione, lo “F-35 Joint Program Office” ha affermato di rimanere impegnato a “fornire a tutti gli utenti la piena funzionalità e il supporto di cui hanno bisogno e che il programma opera in base ad accordi consolidati in modo che tutti gli operatori dello F-35 abbiano le capacità necessarie per utilizzarli al meglio.”
Ed anche il costruttore Lockheed ha affermato di essere “impegnato a fornire capacità, affidabilità e interoperabilità alleata per consentire ai clienti di completare le loro missioni in sicurezza.”
Del resto è innegabile che l’industria aerospaziale degli Usa sia fortemente integrata con quella europea per quanto riguarda l’F-35, sia per la linea di assemblaggio finale di Cameri, sia per le parti che saranno realizzate in Svizzera e Finlandia. Di conseguenza, ogni ipotetica manutenzione o supporto che venisse negato dagli Usa significherebbe un danno autoinflitto sia all’industria aerospaziale americana sia ai subappaltatori, e questo metterebbe a rischio le future vendite del caccia, che al momento non ha rivali né, apparentemente concorrenti.
Ma ciò, per l’Italia, significa che dobbiamo sia mantenere la posizione privilegiata di chi ha in casa uno stabilimento, sia accelerare lo sviluppo del Gcap.