È una produzione cruciale per l’Italia. Eppure il settore vive il contrasto tra le imprese private in crescita e quelle pubbliche (si legga ex-Ilva) in crisi abissale. Con colpe divise tra politica ed economia.
C’era una volta un re? No, c’era una volta un pezzo di ferro. L’incipit di Pinocchio, riveduto e corretto, aiuta a svelare l’inganno della privatizzazione dell’acciaio. Compresi gli operai dell’ex Ilva di Taranto, Genova e Novi Ligure che venerdì, il 20 ottobre, scioperano per otto ore e sono decisi a «cingere d’assedio» palazzo Chigi durante un corteo di protesta e da ultima spiaggia a Roma. Non vedono futuro. Per 2.500 di loro è prevista la cassa integrazione fino al 31 dicembre, ad altri 4.300 della cosiddetta gestione commissariale devono toccare altri cinque anni di «cassa» e poi ci sono migliaia e migliaia dell’indotto e centinaia di piccole e medie aziende sul lastrico. Per contro, le fonderie del polo industriale lombardo fanno buoni affari.
Feralpi, Siderurgica Investimenti, Cogne, Marcegaglia, Acciaierie Lombarde, Ferrari ferroleghe, Profiltubi, Afv, Arvedi (nel 2022, 7,7 miliardi di fatturato e un utile di 640 milioni) tanto per citarne alcuni, hanno avuto bilanci record nonostante l’anno scorso sia stato quello dell’impazzimento dei costi energetici. Il divario tra siderurgia italiana e francese sulle bollette è di 100 euro a tonnellata, con i tedeschi siamo a 60 euro. Funzionano i cosiddetti «forni elettrici ad arco», mai installati a Taranto, funziona l’iperspecializzazione come gli acciai lunghi o i tubi da petrolio, va fatta la ricerca sui materiali e dei materiali; i rottami ferrosi sono «rari» e seguono andamenti paragonabili a quelli dell’oro in un mercato dove manca la consistente produzione dell’Ucraina, impegnata nel conflitto dopo l’invasione della Russia. Chi ha perso più quote di tutti però è l’Europa (oltre il 10 per cento); le fonderie italiane si salvano grazie all’altissima tecnologia, nonostante la Cina con i suoi 713 milioni di tonnellate prodotte – che la rendono leader assoluto – abbia invaso il mercato mondiale. Resta un rebus capire come mai a soffrire siano solo le acciaierie ex pubbliche. Forse scontano un peccato originale.
A Taranto l’export è diminuito dell’86 per cento e la produzione del 57, Genova e Alessandria hanno prodotto il 40 per cento in meno con un calo dell’export del 74, a Piombino la produzione è crollata del 43 per cento e l’esportazione del 74. L’ex Thyssenkrupp di Torino fa meno 23 per cento di prodotto e meno 62 di export. A Terni, una delle fabbriche siderurgiche gioiello che fa prodotti unici, l’arrivo del gruppo Arvedi che ha comprato da Thyssen – la trattativa è stata seguita passo a passo dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti – ha cambiato le prospettive: c’è un piano di rilancio con investimenti per 1,1 miliardi di euro annunciato nel luglio scorso. L’Italia si era issata fino all’ottavo posto tra i produttori mondiali dell’acciaio, che è il plasma dell’economia manifatturiera (senza non si costruisce un sistema industriale), ma oggi è pericolosamente arretrata. Siamo al quindicesimo posto, produciamo circa 21,6 milioni di tonnellate con un calo rispetto al 2021 dell’11,5 per cento, e metà di questa flessione è da imputarsi all’ex Ilva che non è arrivata neppure a tre milioni di tonnellate. Da Paese leader rischiamo di diventare terra di conquista, anche se in forza dell’avanzatissima tecnologia italiana.
L’oligarca ucraino Rinat Achmetov a cui Volodymyr Zelensky ha tolto le licenze tv (il suo Mediacorp era il primo d’Ucraina) vuole ricostruire la Azovstal in Italia. È la mega fabbrica di Mariupol distrutta nel sanguinoso assedio durato otto mesi. Achmetov attraverso la sua Metinvest, in accordo col gruppo friulano Danieli – tra i colossi mondiali nella costruzione di impianti siderurgici, fattura 3,5 miliardi di euro – voleva realizzare una nuova Ilva nei pressi della laguna di Marano per fare acciaio al servizio della ricostruzione dell’Ucraina. La protesta di 25 sindaci e di 30 mila friulani che non volevano l’impianto vicino alle spiagge di Lignano Sabbiadoro, e il parere negativo della Regione guidata da Massimiliano Fedriga a rischio anche di una rottura col governo Meloni pronto a insediare un Commissario per far marciare il progetto, ha fermato l’investimento. Ma ora Metinvest-Danieli fanno rotta su Piombino. Qui, dove con la vecchia Magona d’Italia, e raccogliendo l’eredità degli etruschi, è cominciata l’avventura dell’Ilva e dell’acciaio, Comune e sindacati sono pronti a trattare. L’investimento è da oltre due miliardi di euro, Piombino è città degli altiforni e ora ospita – dopo infinite polemiche – la nave per la rigassificazione del metano liquido.
Piombino voleva fare l’opzione «solo turismo», l’Elba è lì davanti al suo porto, ma ha l’acciaio nel Dna. Le colate però si faranno – con lavorazioni d’avanguardia a bassissimo impatto – non più in nome dell’Italia, ma per conto dell’Ucraina. Nel 1992, quando è iniziata quest’odissea, sforniamo 25 milioni di tonnellate. A bordo del «Britannia», il meraviglioso panfilo della fu Regina Elisabetta II, nel maggio di quell’anno il direttore generale del Tesoro Mario Draghi annuncia che l’Italia è pronta a (s)vendere gran parte dell’industria pubblica e si cominciano a fare i conti. Guido Carli, Beniamino Andreatta, poi Carlo Azeglio Ciampi sono persuasi che serva all’Italia il vincolo esterno: la gabbia dell’euro col patto di stabilità che sta tornando di stringente attualità. ll giovane Romano Prodi, cresciuto all’ombra di Andreatta, nella prima presidenza all’Iri prepara la strategia d’uscita. Sarà lui da presidente del Consiglio a svendere ai Riva il polo siderurgico di Stato.
Per Taranto i Riva offrono 1.649 miliardi di lire (siamo sotto al miliardo di euro odierno) e si accollano 1.550 miliardi di debiti per portarsi a casa la «fabbrica» più grande d’Europa, l’unica rimasta in Italia a ciclo chiuso (dal minerale al laminato), che fatturava allora 9 mila miliardi, con 18 mila dipendenti per produrre 7 milioni di tonnellate. Oggi, come detto, fa fatica a fonderne 3 milioni, ha meno di 4 mila operai ed è costata – dalla privatizzazione – al contribuente italiano non meno di 6 miliardi di euro, 11.800 miliardi di lire. Di quei 6 miliardi almeno 3,6 se li è mangiati la gestione commissariale inventata da Mario Monti, presidente del Consiglio nel 2012, quando i pm di Taranto misero sotto sequestro la fabbrica per inquinamento, e proseguita fino al 2018 con l’aggiudicazione di quel che resta dell’Ilva alla franco-indiana Arcelor Mittal. Intanto lo Stato è rientrato con la partecipazione di Invitalia in Acciaierie d’Italia, poi si vedrà. Gli scioperi e le proteste delle scorse settimane, la minaccia continua delle dimissioni di Franco Bernabè da presidente di Acciaierie d’Italia dicono che l’ex Ilva è in coma profondo. Scrive Bernabè: «Lo sanno Giorgia Meloni, i ministri Adolfo Urso e Raffaele Fitto: senza investimenti a Taranto non c’è futuro. Serve almeno un altro miliardo subito». Basta? No. Tornerà tutto allo Stato dopo aver disperso una quantità di soldi. Con buona pace della Dc – e dei suoi attuali eredi – che per arrivare nell’euro fu pronta a sacrificare il nostro modello di sviluppo, agricoltura compresa.
Avevano capito male il messaggio di Oscar Sinigaglia fondatore dell’Ilva e poi di Finsider – uno dei grandi visionari industriali come Olivetti, Mattei, Ferruzzi – che nel 1948 spiegando la strategia per l’acciaio sosteneva: «Con la sola agricoltura non avremo mai il benessere». Così nell’84 il ministro agricolo Dc Filippo Maria Pandolfi barattò in Europa meno latte in cambio di più acciaio. Abbiamo pagato miliardi in multe per le quote latte, stiamo pagando miliardi per tenere in vita l’Ilva falsamente privatizzata. Lo Stato sfidando il mercato ha perso il braccio di ferro; pardon, d’acciaio.