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Contante addio. Moneta virtuale, guerra reale

Contante addio. Moneta virtuale, guerra reale

In Italia il 40 per cento dei pagamenti è elettronico: ecco che i grandi gruppi si battono per gli allettanti margini di sviluppo del settore. E in autunno scatterà l’ora dell’euro digitale…


Il problema del contante è uno solo: non ci si guadagna sopra e quando passa di mano non ha bisogno di intermediari. Per questo deve sparire. Con tre scuse: la lotta all’evasione fiscale, al riciclaggio e alla violazione delle sanzioni internazionali, tre fenomeni che alle banconote consegnano giusto le briciole perché i grandi traffici si servono di fatture false, bonifici e triangolazioni, tutte digitali. Ma anche il progresso parla digitale, non c’è dubbio. In Italia, nel 2022, il 40 per cento dei consumi è passato per Pos e pagamenti online. Un mercato con ampi margini di crescita, come testimonia la battaglia in corso tra i big del mercato, come la francese Worldline, gli italiani di Nexi, Bcc Pay e Bancomat, oltre a Visa e Mastercard, i signori delle carte di credito. Le commissioni sui pagamenti digitali generano profitti miliardari e garantiscono la massima tracciabilità, ma nell’interesse di chi? Su questo ricco business incombe anche l’euro digitale, la cui sperimentazione potrebbe partire in autunno. La Banca centrale europea assicura che sarà gratuito, anonimo e molto democratico, ma potrebbe essere affidato agli stessi privati che oggi gestiscono le transazioni elettroniche. Il che ovviamente non è un male, ma avrà dei costi.

L’anno scorso le transazioni digitali in Italia hanno sfiorato i 400 miliardi di euro. Come ha sottolineato l’Osservatorio innovative payments della scuola di management del Politecnico di Milano, «i dati sui pagamenti digitali in Italia nel 2022 dimostrano che la crisi pandemica ha cambiato strutturalmente le abitudini dei consumatori, che trovano questi mezzi sempre più comodi, veloci e sicuri, portando il mercato a crescere a ritmi superiori rispetto a quelli pre-Covid». La Bce segnala che nel 2021 l’Italia è stato uno dei Paesi con la maggior crescita di transazioni con carta pro capite (+33,6 per cento). Anche la rivoluzione vista dalle banche è in pochi numeri: nel 2022 sono aumentati del 13,1 per cento i clienti che operano via cellulare e del 3,3 per cento quelli che usano l’homebanking (fonte Abi Lab). Certo, c’è ancora un 40 per cento di italiani che si ostina a non avere la carta di credito, ma il futuro è digitale, inutile negarlo. Tuttavia, capire dove ci porta e chi ci guadagna fa semplicemente parte della democrazia.

Proprio Visa, Mastercard e i sistemi di pagamento studiati dai «big» di internet possono mettere a rischio quel che resta della sovranità economica. Ma qualche campione nazionale c’è e in qualche modo c’entra anche lo Stato. In Italia, il leader di mercato è Nexi guidata da Paolo Bertoluzzo, che nel 2021 si è fuso con la pubblica Sia per dare vita a un colosso europeo che l’anno scorso ha fatturato 3,26 miliardi, con un margine operativo lordo di 1,6 miliardi. In giro ci sono 170 milioni di carte Nexi in 25 Stati europei e 2,2 milioni di commercianti clienti. Nexi ha accordi con oltre mille grandi istituzioni finanziarie in Europa, mentre in Italia lavora con le principali banche, a cominciare da Intesa Sanpaolo e Bper.

Nel comunicato del 16 dicembre 2021 che annunciava la fusione tra Nexi e Sia, si celebrava la nascita della «PayTech italiana, leader a livello europeo in grado di promuovere la transizione verso un’economia cashless e digitale». La realizzazione di un’economia «senza contante» è dunque un impegno strategico e per nulla segreto. E non è un caso che Nexi sia coperta dal «Golden power», che consente al governo italiano di bloccare operazioni o soci sgraditi, come è successo con i cinesi in Pirelli. Per questo, guardare il libro soci di Nexi consente di capire la posta in gioco. Al primo posto troviamo il fondo statunitense H&F Corporate Investors, che detiene il 19,9 per cento attraverso un veicolo lussemburghese. Poi arriva la Cassa depositi e prestiti (Cdp), controllata dal Tesoro, con un pacchetto del 13,5 per cento, al quale si può virtualmente aggiungere il 3,5 per cento detenuto da Poste. I vecchi padroni di Nexi, ovvero i fondi di Advent, Bain Capital e Clessidra, hanno ancora in mano il 9,4 per cento attraverso l’inglese Mercury. Un altro 5 per cento è controllato dalla lussembur-ghese AB Europe.

Che cosa ci fa lo Stato in Nexi? Mette un piede in un business importante e lo fa schierando la Cdp, che per missione presidia le principali infrastrutture del Paese, dalle autostrade alle reti energetiche. L’Italia non è l’unica a comportarsi così. Il principale rivale di Nexi è la francese Worldline, quotata in Borsa a Parigi, dove capitalizza poco meno di 10 miliardi di euro, come la concorrente italiana. Worldline ha comprato Axepta Italia e nella Penisola lavora con Bnl-Bnp Paribas, Crédit Agricole e Banco Desio, conta 40 mila clienti commerciali e ha gestito 300 milioni di transazioni nel 2021. Ma cerca di non dare troppo fastidio a Nexi, al pari degli italiani in Francia. Anche qui è interessante spulciare il libro soci, che vede al primo posto con il 10,6 per cento Six Group, che gestisce la Borsa svizzera. Al 5,4 per cento si trovano i fondi Usa di Harris Associates (Natixis) e al 4,4 per cento spunta Bpi France, la banca pubblica di investimenti del governo francese, accompagnato dalle Poste francesi con un altro 2,6 per cento.

Inutile dire che la presenza dello Stato, francese o italiano non importa, al fianco di investitori con domiciliazioni fiscali di favore regala un sapore particolare a tutti quei bellissimi discorsi sulla lotta al contante. Tornando in Italia, si sta muovendo molto anche il circuito che fa riferimento a Bcc Pay, controllata al 60 per cento dal fondo Fsi e al 40 per cento da Iccrea (a cui aderiscono 177 banche di credito cooperativo), capace recentemente di aggiudicarsi un contratto da 600 milioni con Banco Bpm. Alla fine dell’operazione, l’istituto di Piazza Meda potrebbe avere il 28,6 per cento della stessa Bcc Pay. Il circuito cambierà presto nome e ora è il secondo operatore italiano con una quota di mercato del 10 per cento, nove milioni di carte, 400 mila Pos e transazioni gestite per 110 miliardi di euro. Fsi, che fa capo al banchiere d’affari Maurizio Tamagnini, a sua volta è socio e alleato della Ion di Andrea Pignataro in Cerved e Cedacri, fornitore di software bancari. Il Fondo strategico ha puntato anche 100 milioni sulla crescita di Bancomat, dove compaiono Intesa, Iccrea, Bpm e Bper e dove il partner strategico è sempre Nexi. I pionieri di Bancomat gestiscono ben 32 milioni di carte di pagamento e 2,8 miliardi di transazioni l’anno.

Un aspetto a cui si fa poca attenzione quando si procede a un pagamento è che se si usa il contante si usa una moneta pubblica, emessa dalla banca centrale, mentre se si usa una carta si utilizza denaro emesso dai privati. Non è un caso che la Russia di Vladimir Putin, uno che di potere statale se ne intende, stia già sperimentando il rublo digitale per aggirare l’embargo, ma anche il mercato nero delle valute. E non è unon è un caso che Fabio Panetta, membro del board della Bce e prossimo governatore della Banca d’Italia, alla fine di giugno abbia presentato la futura moneta digitale come uno strumento non solo gratuito ed inclusivo (non sarà necessario avere un conto in banca), ma anche come necessario a «preservare l’autonomia strategica dell’Europa». Da chi? Beh, non solo dalle criptovalute, ma anche e soprattutto da Stati Uniti e Cina, che da sempre dominano l’industria dei pagamenti elettronici. La sperimentazione ufficiale partirà a ottobre e l’euro digitale potrebbe divenire realtà entro quattro anni. Sarà distribuito autonomamente dalla Bce, o utilizzando canali pubblici come le Poste nazionali, o verrà gestito dagli attuali big dei pagamenti digitali? Questo è uno dei principali interrogativi, ma non è il solo.

Non dovrebbe indebolire le banche, perché si ipotizza un tetto massimo di tremila euro e dovrebbe tutelare la privacy come il contante, perché la Bce non conoscerebbe i dettagli delle transazioni. Ma un giorno potrebbe essere usato, per esempio, per aiutare i commercianti a pagare l’Iva. E in scenari di allentamento delle regole democratiche, che come si è visto durante la pandemia non sono più da sottovalutare neppure in Occidente, una moneta digitale potrebbe essere bloccata e sparire dalle mani di un cittadino dissenziente. Lo stesso vale per gli stati di crisi o di guerra: se un governo vietasse per un certo periodo l’acquisto di determinati beni, o le transazioni in alcune zone, non sarebbe tentato dal bloccare l’euro digitale? Al momento, nessun documento ufficiale della Commissione Ue esclude che la moneta digitale sia programmabile anche da governi o da enti privati. E a gennaio l’Eurogruppo ha benedetto l’euro del futuro, sottolineando però che il suo progetto deve essere conforme ad altri obiettivi politici, come la prevenzione del riciclaggio, del finanziamento illecito, dell’evasione fiscale e la garanzia del rispetto delle sanzioni internazionali. Obiettivi difficili da conciliare con la sbandierata promessa di privacy.

Si torna così al tema del guadagnare soldi sul passaggio di soldi. I filantropi della Bce taglieranno le unghie ai gestori privati delle transazioni o, semplicemente, si spartiranno tutti quanti insieme il mercato? È presto per dirlo, ma quando si sente parlare di «euro digitale gratuito» forse è meglio ricordarsi che un nuovo servizio può essere pagato non solo con una commissione, ma anche con una piccola, impercettibile, quotidiana perdita di libertà.

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