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Tutti pazzi per le «monete» virtuali

Tutti pazzi per le «monete» virtuali

Un italiano su cinque le acquista sperando in piccoli o grandi guadagni, in tutto il mondo vi sono stati investiti trenta miliardi di dollari nel solo 2021. Viaggio nella realtà finanziaria che rappresenta il futuro. Ma che, per il momento, si espande senza regole.


Ragazzini alle prime armi e impiegati, studenti universitari e investitori di lungo corso, grafici, informatici, baristi, cacciatori di teste, semplici curiosi, edotti o improvvisati. Italiani insomma, e tutti travolti da un’insolita passione: quella per le criptovalute.

Il 2021 è stato l’anno delle monete virtuali, alternative, creative, certamente non collegabili a Banche centrali, orbitanti attorno a un’invenzione tecnologica destinata a rivoluzionare le nostre vite, la blockchain («registro» digitale che garantisce l’immutabilità e dunque la sicurezza degli scambi). In poco tempo sono passate da materia per «nerd» a fenomeno globale, attraendo persone prima lontanissime dall’idea di puntare il loro denaro su qualcosa di tanto aleatorio. Eppure è stato, ed è, boom.

Si pagano concretissimi euro in cambio di Bitcoin ed Ether, la valuta di Ethereum (sono i due più importanti e famosi player), ma anche per Yearn, Immutable X, Horizen, Shiba Inu, Aave e gli altri più di 16 mila (la cifra è di Coinmarketcap.com) astrusi nomi che compongono l’universo in espansione dei prodotti «cripto», nella speranza che la sottile linea mobile che indica l’andamento di ognuna di queste altcoin (monete alternative) salga e magari si impenni trasformando l’investimento in sogno.

I casi di rialzi monstre del resto non mancano. La stessa «madre di tutte le cripto», il citato Bitcoin, ha reso miliardarie le persone che ci hanno creduto prima degli altri e la sua presa di valore (fino al 5 mila per cento, oscillando negli ultimi 5 anni), ha trascinato tutto il comparto di altcoin e «shitcoin» (le altcoin valutate più a rischio), seppur in modo schizofrenico. È capitato che alcune balzassero da zero all’iperspazio (basti citare Solana: circa +12.000 per cento in un anno) e i loro casi si accompagnano alle storie di successo di giovani e giovanissimi arricchitisi da un giorno all’altro. Notizie buone per galvanizzare gli animi e attrarre ancora più appassionati.

A forza di pompare denaro nel sistema, si valuta che l’ammontare complessivo dei «digital asset» oscilli tra i 2,5 e i 3 trilioni di dollari, con cifre più che triplicate rispetto a inizio anno. Ma ci sono anche i ribassi, repentini quanto gli aumenti. Com’è avvenuto quando Pechino ha dichiarato illegali le transazioni in cripto valutandole come veicoli di instabilità finanziaria (sterzata considerevole, dato che fino a due anni fa il 75 per cento del «mining» di Bitcoin si faceva in Cina). O quando un tweet di Elon Musk (il più grande fan delle cripto) ne criticava l’alto impatto ambientale. In quei casi le valute alternative, che per una legge non scritta sono ipersensibili alle minime variazioni del Bitcoin, gli sono andate dietro spazzando via miliardi di dollari di investitori al dettaglio. Per poi risalire, e riscendere. Montagne russe che tuttavia non fanno desistere dall’investire in questo mondo fatto di bit e lontanissimo dai Bot.

«All’inizio ero scettico, poi i miei amici mi hanno convinto a metterci 200 euro, che oggi sono diventati 600» racconta Francesco, 30 anni, addetto alla sicurezza in Lombardia, che chiede di rimanere anonimo e non è il solo: quello della privacy è un tema chiave per il popolo delle cripto. «Il tempo che prima perdevo sui social ora lo impiego a monitorare le valute, a studiare il mercato. Ammetto, ci passo ore. Con gli amici ho un gruppo su WhatsApp dove ci confrontiamo e poi investiamo tutti insieme, ognuno per quel che può. È meglio del Fantacalcio. Diventare ricco? Magari proprio ricco no, però… Chi dice che non spera in un colpaccio non dice la verità». Me ne ha parlato un amico, mi diverto, ci spero, si può diventare ricchi… Si assomigliano, i commenti di chi intraprende questa strada. In quanti investono? Difficile saperlo, ma alcuni sondaggi ne danno un’idea. Per la piattaforma online eToro, lo fa circa il 16 per cento degli italiani. Una cifra che sale al 21 per cento nei calcoli della società americana Finder (un italiano su 5). Indicatore utile per capire la dimensione del fenomeno è poi l’ammontare dei download su smartphone per scaricare le cinque applicazioni di gestione di criptovalute più popolari: nel terzo trimestre del 2021 c’è stato un aumento del 75 per cento anno su anno. Gli attivi sono soprattutto maschi e giovani, con uno spiccato interesse della Generazione Z (18-24 anni) e Millennials (fino ai 34 anni), mentre va scemando dai 55 in su (indagine OnePoll per la società di cripto-investimenti Bitpanda in Italia).

Vale la pena ricordare che le criptovalute sono create attraverso un sistema di codici informatici crittografati che non solo rende le transazioni relativamente sicure, ma anche difficilmente controllabili e sovranazionali. Nessun intervento delle Banche centrali può correggerne l’andamento o il cambio.

A comandare qui è un protocollo internet «peer-to-peer», cioè con moltissimi computer interconnessi che si scambiano continuamente dati tra loro, per cui non c’è gerarchia di informazioni e permessi, ma un sistema di controllo diffuso e pressoché anonimo (chi lo utilizza non risulta con nome e cognome ma solo con un codice). La prima valuta decentralizzata che ha utilizzato questo registro pubblico distribuito, la «blockchain», è stata il notorio Bitcoin nel 2009. Da lì, sono nate altre blockchain e tanti altri strumenti digitali, o digital assets. Ormai una start-up per finanziarsi è in grado di creare la propria valuta, definita «token», appoggiandosi alle (poche) blockchain esistenti, e queste valute possono essere utilizzate e scambiate. Forniscono un metodo alternativo di pagamenti online e oggi è possibile acquistarle, venderle, scambiarle come qualsiasi altro bene, ma solo su circuiti che ne riconoscano il valore. L’evoluzione però è già qui e una piattaforma di scambio di criptovalute come Binance, per esempio, fornisce carte di debito fisiche del circuito Visa «agganciate» al proprio portafoglio digitale. Mentre c’è un gran fiorire di Bancomat per Bitcoin (per trasformare contanti in criptovalute, e il contrario). È un mondo complesso da comprendere ma, paradossalmente, facilissimo da maneggiare. Per investire basta uno smartphone: in pochi secondi si scarica un’app di gestione e in pochi minuti si è pronti a partire. Con il tempo s’impara a capire che il termine criptovalute è solo una parte della «finanza decentralizzata», o DeFi: un mondo composito fatto di criptovalute in senso stretto, ma anche di token, stable coin, utility token, stability token e altro ancora. I token sono criptomonete che si appoggiano su piattaforme blockchain (soprattutto Ethereum) con cui alcune società si finanziano. Ma anziché passare da notai o da Piazza Affari, ci si rivolge direttamente agli investitori con una forma di crowdfunding (le cosiddette ICO, Initial Coin Offering). E questi token possono avere molte funzioni diverse: strumenti di investimento, di pagamento, token che danno diritto ai loro possessori di accedere a servizi, oppure di votare, o avere sconti. Sono utilizzati per esempio nei videogiochi, o dalle squadre di calcio che creano «fan token»: criptovalute emesse in modo che i tifosi possano acquistarne e vantare diritti di voto su una quantità di decisioni. Un finanziamento dal basso insomma.

I prodotti finanziari digitali non sono soltanto una passione da piccoli, poi: stanno entrando prepotentemente nei panieri su cui investono banche, assicurazioni e gestori del risparmio, spinti dalla crescente domanda della clientela. Un’indagine condotta da Natixis con CoreData Research su 500 investitori istituzionali nel mondo (incluse Banche centrali, fondi sovrani e altri), rivela che il 28 per cento di essi investono in criptovalute. Magari anche in «stablecoins», quelle monete digitali più stabili perché ancorate ad asset finanziari come oro, euro e dollari (un nome su tutti: Tether), che presto potrebbero diffondersi come strumento di pagamento. Uno studio di Accenture rileva come le banche europee si aspettino la fine del contante entro il 2030, con le criptovalute che rappresenteranno il 10 per cento delle transazioni.

È il futuro insomma. Non a caso il nuovo sindaco di New York Eric Adams si farà pagare i primi tre stipendi in Bitcoin e vuole che si insegni questa tecnologia agli studenti, mentre quello di Miami offre ai suoi abitanti dividendi di un token della città, la Miami Coin. Intanto El Salvador ha approvato il Bitcoin come moneta legale perché, ha detto il suo presidente Nayid Bukele, «è lo strumento più rapido per trasferire miliardi di dollari di rimesse da chi lavora all’estero evitando di perdere milioni in intermediari».

Ma in questa fase grigia dove i governi tardano a regolamentare, e forse anche a capire la portata di questa evoluzione (la proposta europea di MiCA, Markets in Crypto-Assets, dovrebbe introdurre obblighi di autorizzazioni per operare sul mercato europeo dal 2024), le critiche non mancano. Tra le tante voci, quella del Fondo monetario internazionale (Fmi) che ritiene le criptovalute uno dei grandi rischi in ambito finanziario; quella del presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, che ha stigmatizzato le criptovalute come «asset speculativi»; quella del presidente della Consob Paolo Savona, che paventa un futuro oscuro: «Sembra ripetersi l’esperienza antecedente la crisi del 2008, quando i contratti derivati si svilupparono fino a raggiungere una dimensione di dieci volte il Pil globale».

«Siamo in un periodo di “hype”, cioè di eccessivo entusiasmo, in cui tutti credono di potersi arricchire facilmente e in brevissimo tempo con le criptovalute», commenta Leonardo Maria De Rossi, direttore dei corsi «Blockchain and Cryptoassets» all’Università Bocconi e «Bitcoin and Blockchain programme» presso SDA Bocconi School of Management. «Si deve soprattutto a un fenomeno che ha recentemente influenzato molti nuovi investitori chiamato «FOMO», Fear Of Missing Out, cioè la paura di aver perso un’opportunità, tendenzialmente finanziaria, che altri hanno saputo sfruttare. Inoltre nell’ultimo periodo c’è stata un’esplosione di nuove criptovalute con impennate vertiginose. Come è avvenuto con le cosiddette “MemeCoin”, DogeCoin o Shiba Inu». Il riferimento è a quelle criptovalute diventate popolari perché scimmiottano con i loro nomi e le loro icone i divertenti contenuti digitali diventati virali sul web, i «meme» appunto (Dogecoin, ad esempio, utilizza come simbolo l’icona di un cane). «Tra le migliaia di criptovalute oggi in circolazione» dice ancora il docente della Bocconi, «di valide ce ne saranno un paio, ma il resto sono solo tentativi speculativi, quasi sempre fallimentari. Bitcoin, al contrario, è stato ideato con un’idea ben precisa: diventare una rete globale e incensurabile per scambiare liberamente un asset digitale. Se ci riuscirà sarà il tempo a dirlo, ma di sicuro si pone in assoluta contrapposizione a ciò che sta accadendo nel mondo dei pagamenti tradizionali».

«Da sempre certi eventi agiscono su leve profonde nell’uomo, dalla pozione miracolosa al richiamo del guadagno facile visto con diamanti, Telecom argentina o schema Ponzi, solo per citare alcuni casi… Oggi sta avvenendo con le cripto» punge A.R., dirigente di una grande banca del Nord Italia. «Gente che non ha neanche capito cos’è la blockchain si illude di approfittarsene. E vanno incontro a volatilità e pescecani. Gli istituti bancari invece salvaguardano da avventatezze, e nel trading le procedure di compravendita hanno un obbligo di best execution e sono controllate da Consob». Ma intanto è anche nata la tendenza, da parte di banche e istituzioni finanziarie, a offrire servizi di trading e custodia di asset digitali.

Dunque con il fai-da-te di rischi ce ne sono, e i piccoli investitori li corrono nonostante tutto. Francesco per esempio, 42 anni, fiorentino: «Ho iniziato a investire perché me l’ha chiesto mia moglie» racconta. «Ha scoperto che sua sorella aveva comprato 200 euro di una cripto “promettente” e mi ha spronato: “Non è che lei diventa ricca e noi rimaniamo il ramo derelitto di famiglia?”. Così ci ho buttato dentro 500 euro. Speriamo. Se va bene, va tanto bene, se va male amen…».

Non improvvisa l’imprenditore milanese Giorgio Psacharopulo: «Trovo geniale che abbiano creato monete che circolano su internet essendo ormai internet preponderante nelle nostre vite. È la finanza che si crea dal basso, dove da sempre c’è più vivacità e spinte al rinnovamento» osserva. «Il Bitcoin è come oro digitale, con i suoi sbalzi ma anche la certezza che durerà. Con le altcoin il rischio è più alto. Bisogna essere attenti e veloci, ma come investimento ci sta, credo che una piccolissima parte del patrimonio possa seguire questa strada».

Parla di giusto «momento di entrata» Edoardo, una quarantina di anni e un ruolo apicale in una importante multinazionale, che racconta: «La mia passione per le criptovalute è scoppiata con il lockdown. Sentivo il bisogno di una scossa positiva, di qualcosa di nuovo. E avevo più tempo per studiare. Nella primavera 2021 ho finito per spostare quasi tutto il mio azionario sulle cripto. Ne ho una ventina, non cifre enormi: la prima regola è investire quello che puoi permetterti di perdere. Se sbagli il momento di “entrata”, cioè mentre la cripto raggiunge il suo picco, da 100 euro te ne trovi 30».

Che poi è la cosa accaduta a M.C., poco più che cinquantenne, un lavoro nella comunicazione. «Ne sentivo parlare così tanto che alla fine ci ho provato anch’io. Mi dicevano che la cripto più solida era Bitcoin e ci ho messo 250 euro, più altri 250 euro in altre valute scelte sulla base di cose che leggevo qua e là. Dopo poco sul mio conto ne erano rimasti circa 280. Bell’affare».

«Mi dà un brivido sapere che 200 euro diventano 250 nel giro di un pomeriggio e che posso perdere tutto in un batter d’occhio» ammette Marco, 40 anni, anche lui investitore moderato. «Però le cripto mi piacciono anche per altri motivi: che nel mezzo non ci siano banche centrali né la politica. In un certo senso è la democratizzazione della finanza».

Una sovranazionalità che ha spesso dimostrato la sua utilità. Per esempio, quando in Venezuela il governo vietò l’accesso ai conti correnti, le persone fecero ricorso ai Bitcoin perché basta una chiavetta Usb con dei codici per trasportarli e farli riconoscere in tutto il mondo. In Russia si è sostenuto il dissidente Alexei Navalny grazie a donazioni in Bitcoin. In Afghanistan le donne possono farsi pagare in Bitcoin perché aprire conti bancari per loro è haram, vietato. Senza contare il gran numero di Paesi con situazioni politiche instabili e valute ufficiali pari a carta straccia, dove i cittadini scelgono «stablecoin» per avere più garanzie rispetto allo Stato e alle banche.

Dunque senza regole c’è spazio per tutto, scopi nobili e rischi elevati, tecnologie rivoluzionarie e furbi che affollano certi gruppi Telegram con promesse stile il Gatto e la Volpe («Collabora subito con me con gli investimenti più alti possibili: più investi più otterrai profitto!»).

Altri specchietti per le allodole compaiono sui social network dei ragazzini, che ambiscono a investire nel nuovo che avanza. «A scuola, anche tra i miei compagni non si fa che parlare di criptovalute, e su Instagram e TikTok si spingono pubblicità di guadagno facile, ma sono truffe» dice il sedicenne Sebastian T., studente in un liceo scientifico di Milano. «Sto convincendo mio padre ad aprirmi un conto a suo nome sul mio cellulare, con pochi soldi. Ma la verità è che ormai va troppo di moda e il mercato delle cripto è sovraffollato. Secondo me la situazione è sfuggita di mano. Mi è un po’ passata la voglia».

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