Oggi si parla sempre di anni e contributi, ma non si ricorda mai il meccanismo con cui si calcola l’ammontare finale. Eppure è importante perché, così com’è concepito, penalizza molti lavoratori.
Quota 102, quota 104, lo spauracchio della legge Fornero: il dibattito sulle pensioni è tutto concentrato su quando si potrà smettere di lavorare, sull’età e sugli anni di contribuzione, su come uscire da quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi) e come ridare un po’ di fiato ai conti dell’Inps. Resta invece nell’ombra il sistema con cui viene calcolato l’assegno.
Ed è un vero peccato perché si tratta di un meccanismo che, nell’indifferenza generale, penalizza molti pensionati. Soprattutto adesso, con un’inflazione che sta rialzando la testa oltre il 2 per cento e con un prodotto interno lordo che ha preso una botta dell’8,9 per cento nel 2020 per poi recuperare parte del terreno perduto quest’anno. Vi chiederete che cosa c’entrino inflazione e Pil con le pensioni e la risposta è semplice (anche se i calcoli sono complessi): l’ammontare del primo assegno è condizionato dall’andamento del Prodotto interno lordo, mentre lo sviluppo futuro della pensione dipende, in parte, dall’indice del costo della vita.
Iniziamo da quest’ultimo aspetto, la rivalutazione delle pensioni, che viene effettuata, con cadenza annua, a gennaio basandosi sull’inflazione dell’anno precedente. Per capire qual è l’impatto dell’indice dei prezzi sugli assegni dei pensionati, abbiamo chiesto l’aiuto di Silvin Pashaj, presidente di Epheso, società che fornisce calcoli previdenziali a banche, assicurazioni, fondi pensioni e che vanta un’esperienza trentennale in campo previdenziale.
Ecco alcuni esempi concreti: un signore si è ritirato nel 2011 con una pensione lorda di 2.700 euro al mese e in seguito al pur modesto aumento dei prezzi di un decennio, nel 2021 il suo potere di acquisto si è ridotto del 3,2 per cento. Un altro ha smesso di lavorare nel 2011 incassando un assegno di 5.500 euro al mese: dopo dieci anni si trova ad aver perduto il 7,7 per cento di potere di acquisto. Chi invece ha una pensione di 1.300 euro non perde nulla.
Altro caso: un dipendente va in pensione nel 2016 con un assegno di 2.700 euro e, ipotizzando un’inflazione media del 2 per cento, accuserà nel 2026 una perdita di potere di acquisto del 3,6 per cento. Mentre per chi incassava nel 2016 un assegno di 5.500 euro, dieci anni dopo la sua perdita sarà del 5,1 per cento. Non è poco. Queste disparità derivano dal fatto che il meccanismo di difesa dall’inflazione è regressivo, maggiore è l’assegno, minore è la rivalutazione riconosciuta dallo Stato. In questo biennio 20-21, per esempio, le pensioni fino a 4 volte la minima (che è di 6.703 euro lordi all’anno) vengono rivalutate al 100 per cento, cioè crescono di una percentuale uguale all’inflazione, mentre quelle più alte, per esempio da 5 a 6 volte la minima (cioè da 33.515 a 40.218 euro annui) recuperano solo metà dell’aumento dei prezzi.
Dal prossimo anno la situazione dovrebbe migliorare un po’, si tornerà infatti al regime precedente al 2012 che prevedeva una rivalutazione delle pensioni più vicina all’andamento dei prezzi: nella peggiore delle ipotesi, si incasserà il 75 per cento dell’inflazione e solo sulla quota di pensione che supera per ammontare 5 volte la minima. Il resto dell’assegno viene rivalutato al 100 e al 90 per cento. Un piccolo sollievo per i pensionati. Tenendo conto del cambiamento del sistema di rivalutazione, la società Epheso ha ipotizzato l’andamento di due assegni nei prossimi anni e si può notare un miglioramento rispetto al passato: chi va in pensione nel 2021 con un assegno di 2.700 euro tra dieci anni perderà solo l’1,7 per cento di potere di acquisto, mentre chi oggi incassa 5.500 euro perderà nel 2031 il 2,8 per cento. Ovviamente se l’inflazione dovesse schizzare magari al 5 per cento, le perdite di potere di acquisto sarebbero ben peggiori, anche del 6 per cento. Fin qui l’effetto del carovita sulle pensioni in essere. Ma poi c’è l’influsso del Pil sulla massa di denaro accumulata virtualmente dal lavoratore negli anni di attività (il cosiddetto montante) da cui deriva l’ammontare dell’assegno iniziale e la cui crescita dipende appunto dall’andamento dell’economia.
Come ricorda Pashaj, «la riforma pensionistica del 1995, chiamata anche riforma Dini, si fonda sul metodo di calcolo contributivo. In questo calcolo la misura della pensione è data dalla somma di tutti i contributi versati nella vita lavorativa, rivalutati in proporzione alla crescita del Pil». Una scelta fatta dal governo Dini per dare maggiore stabilità alle finanza pubbliche: se il Pil cresce, aumentano i contributi e l’Inps, guidato ora da Pasquale Tridico, può sopportare una spesa previdenziale più alta. Se il Pil invece arranca, entrano meno soldi nelle casse dell’Inps che in compenso paga pensioni più leggere. Il che però si traduce in un danno per i lavoratori i quali, come vedremo, si ritrovano con meno potere d’acquisto.
Soprattutto quelli che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996 e che incasseranno l’intero assegno basato esclusivamente sui contributi versati e non, come oggi, con una fetta derivante ancora dal sistema retributivo, più favorevole. Il problema, appunto, è che negli ultimi anni il Pil non sempre è cresciuto come l’inflazione, in alcuni momenti è andato decisamente peggio: «Tra il 2010 e il 2014 e tra il 2020 e il 2023» spiega Pashaj «il montante contributivo non tiene il passo dell’inflazione e si deprezza in termini reali. Ne consegue che le quote di pensione contributiva avranno una penalizzazione che sarà molto difficile recuperare nel futuro».
Il presidente di Epheso mostra un grafico chiaro della situazione: chi si è ritirato dal lavoro nel 2010 ha avuto un assegno calcolato su una massa di denaro rivalutata dello 0,8 per cento reale annuo, cioè al netto dell’inflazione. In fondo gli è andata bene. Chi invece andrà in pensione più tardi risentirà da un lato dell’effetto del calo del Pil, dall’altro dell’accelerazione dell’inflazione. Risultato: dal 2023 al 2027 le pensioni verranno calcolate su un montante che ha avuto un rendimento reale negativo, cioè su un valore minore di tutti i soldi accantonati dal lavoratore negli anni di attività. Quindi i lavoratori sono sottoposti a una doppia fregatura: la prima è di vedere i contributi versati nel corso della vita professionale rivalutarsi di poco, se non addirittura svalutarsi. E il secondo è di perdere inesorabilmente potere di acquisto. Il suggerimento di Pashaj per i percettori degli assegni più ricchi è di rinviare di qualche anno l’incasso di una eventuale rendita integrativa per coprire il buco che si creerà in futuro: «Le pensioni di importo elevato devono mantenere un canale di risparmio attivo, anche usufruendo delle prestazioni posticipate di previdenza integrativa, per fare fronte a un eventuale depauperamento delle entrate». Ma di questo problema dovrebbero farsi carico i sindacati: invece di battersi per smettere di lavorare prima, non sarebbe meglio difendere il potere di acquisto delle pensioni?