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Chi paga per i crac degli altri

Chi paga per i crac degli altri

La cosiddetta «revocatoria fallimentare», che permette ai debitori di richiedere ai creditori fondi già riconosciuti, va cambiata. Con questo meccanismo, molte imprese si ritrovano a dover rendere importanti somme legittimamente incassate per lavori o forniture ad aziende andate in crisi. Ecco che il caso esemplare della Giessegi di Appignano è ormai troppo diffuso.


Se ne parla poco: l’obiettivo della norma è quello di ricostruire il patrimonio di una azienda fallita per fare in modo che possa essere soddisfatto (leggasi, pagato) un numero maggiore di creditori. Si tratta della azione revocatoria fallimentare, uno strumento giuridico nobile nella teoria, ma potenzialmente distruttivo per molte aziende italiane. È un meccanismo complesso che permette al curatore fallimentare di una società di annullare (e dunque chiedere indietro) i pagamenti ricevuti da un’azienda fornitrice per la merce consegnata nei sei mesi precedenti al fallimento. Basta poter dimostrare che il fornitore in questione sia stato a conoscenza della scarsa salute finanziaria dell’azienda poi andata in bancarotta. Senza considerare che, oltre alla perdita dei crediti, queste persone non possono nemmeno recuperare l’Iva (fino alla conclusione della procedura concorsuale se avviata prima del 25 maggio 2021), il che significa soldi anticipati con tempi lunghi per il loro recupero. Tra i tanti, è il caso per esempio della Giessegi di Appignano, nel Maceratese, guidata dal patron e amministratore Gabriele Miccini.

La sua azienda fornisce mobili anche a grandi catene distributive. Una di queste, tanto per intenderci, era la Mercatone Uno il cui fallimento e le azioni subite in virtù della norma sulla revocatoria fallimentare, hanno causato la perdita di 7,3 milioni di euro di euro di incassi, cifra che sale a un totale di 24,6 milioni di crediti persi se si sommano tutte le varie aziende fallite dal 1997 al 2022. «Per lo Stato, le aziende italiane dovrebbero lavorare solo con le realtà di cui si è certi che paghino» dice Miccini a Panorama. «Stante la situazione attuale le aziende sicure che ti pagano si contano sulle dita di una mano. Noi abbiamo rapporti con circa mille clienti, come si fa a essere certi che tutti ti paghino?» si domanda.

Anche perché spesso imprenditori come Miccini si trovano ad avere a che fare con clienti che per lungo tempo hanno pagato prima di andare in crisi. In tal caso, prima di chiudere un rapporto con l’insolvente, si cerca di venirgli incontro. La speranza è che, una volta tornata in salute l’azienda, il flusso di cassa possa riprendere. È proprio il caso della Mercatone Uno. Il rapporto della Giessegi con le aziende di questo gruppo inizia nel 2008 e nel corso degli anni si è sviluppato rapidamente fino a raggiungere volumi di fatturato, nel 2014-2015, di circa un milione di euro al mese. Il tutto, però, si incrina a fine 2015 quando il mobilificio dichiara lo stato di insolvenza e il governo italiano (il presidente del Consiglio allora era Matteo Renzi) decide di ricorrere alla procedura dell’amministrazione straordinaria.

Subentrati i commissari, la Giessegi è stata fin da subito rassicurata dai dirigenti M. Business (il nome della società che faceva capo al marchio Mercatone Uno) che per le forniture future i relativi crediti sarebbero stati in «pre-deduzione», cioè con un grado di privilegio maggiore. «Pertanto, la direzione della nostra società, sia per tutelare la continuità dell’azienda in crisi, sia per garantire i posti di lavoro, decide di rifornire il cliente della propria merce, ulteriormente garantita dall’intervento della Sace, l’assicurazione pubblica del ministero dell’Economia» spiega Miccini. La situazione non migliora di certo quando nell’agosto del 2018 il Mise guidato da Luigi Di Maio decide di cedere la Mercatone Uno a una nuova società, la Shernon Holding, con sede a Malta e guidata da Valdero Rigoni. Così, 55 punti vendita e 2.300 posti di lavoro finiscono in mano a una realtà che però dichiara fallimento a maggio 2019, meno di un anno dopo il proprio subentro. Una crisi che ha comportato il mancato pagamento di crediti per 487mila euro. Come se non bastasse, a causa dell’azione di revocatoria chiesta dal curatore del fallimento Shernon Holding, la Giessegi si è trovata anche costretta a riversare nelle casse della società fallita circa 1,38 milioni di euro, oltre interessi e spese legali. Danno che sa anche di beffa, considerato che il passaggio dall’amministrazione straordinaria alla nuova società Shernon è stato oggetto di scrupolosa attenzione da parte di strutture governative e ministeriali.

Miccini si rivolge quindi alle istituzioni spiegando che la norma va cambiata e che la situazione per le aziende italiane è ormai al collasso. «L’andamento del mercato e le condizioni dell’economia sono già di per sé complicate e norme come quella sulla revocatoria fallimentare, per lo meno con l’attuale impostazione, non fanno altro che aumentare i fattori di rischio per aziende come la mia. Avevo anche avviato interlocuzioni con esponenti del ministero delle Imprese e del Made in Italy, ma senza successo» spiega l’imprenditore. «Ricordiamolo: è un problema che riguarda tutte le aziende».

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