L’industria italiana delle grandi realizzazioni del passato, non c’è più. Una parabola che va avanti da decenni e che oggi appare difficile invertire.
Correva l’anno 1964 e per la seconda volta – la prima fu nel ’59 – la lira italiana vinceva l’Oscar della moneta. Lo assegnava il Financial Times e il suo primo editorialista – si firmava Lombard – scriveva: «Questo premio è assegnato all’Italia per essersi rifiutata di accettare le condizioni che i suoi partners del Mec intendevano esigere allorché s’offrirono di districare la lira dalla crisi all’inizio del ’64». Per chi non lo ricordasse il Mec, Mercato economico europeo, è il prodromo dell’Ue e poi dell’Euro. L’anno prima Giulio Natta aveva vinto il Nobel per la chimica, forse il più «autentico» dei premi assegnati dall’Accademia svedese delle scienze, per aver inventato grazie al sostegno della Montecatini il «moplen», che segnò la rivoluzione della plastica. Sono passati sessanta anni e il petrolchimico di Porto Marghera ha chiuso l’impianto di polimerizzazione. Oggi l’Eni punta sulle bio-raffinerie, ne ha due e sta per aprirne una terza. Anche questo è un primato italiano, ma è quasi un palliativo nel progressivo decadimento della capacità industriale di questo Paese uscito distrutto dalla guerra e dal fascismo, che però aveva lasciato in eredità l’Iri di Alberto Beneduce e l’Agip che Enrico Mattei – oggi super-invocato – trasformò in Eni facendone quello che è diventato oggi un campione mondiale. Il ’64 è un anno cruciale: nasce il primo centrosinistra, s’inaugura il 4 ottobre un’opera d’ingegneria che fa sgranare gli occhi agli americani: l’autostrada del Sole. Guido Carli, che è il Governatore della Banca d’Italia quando la lira vince l’Oscar, lascia nel’75 palazzo Koch ed elabora la «teoria del vincolo esterno».
Scrive nelle sue memorie: «La nostra scelta del vincolo esterno nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese». Esattamente l’opposto di quanto Lombard aveva riconosciuto come punto di forza all’Italia. All’inizio la sinistra è contraria (Federico Caffè detta a Mario Draghi una tesa in cui si afferma: la moneta unica sarà una sciagura) ma il delitto Moro e la possibilità per il Pci di andare al governo cambia tutto. Da lì in poi sarà una corsa al vincolo esterno che culmina con le privatizzazioni targate Draghi-Prodi-Amato. Lo Stato nel ’96 ne ricava netti 34.800 miliardi di lire, il debito pubblico ammontava a oltre 2 milioni di miliardi. La crisi dell’Ilva è lo specchio del disastro industriale delle privatizzazioni. Il polo di Taranto quando era Finsider produceva circa otto milioni di tonnellate di acciaio, l’anno scorso non è arrivato a tre. Lo stesso vale per la Stet-Telecom, per la Montedison (fu fatto naufragare il progetto di Raul Gardini e l’Italia è uscita dalla chimica di base), per la Sme che era un colosso dell’agroalimentare la cui privatizzazione ha prodotto tra gli altri disastri anche gli scandali di Parmalat con Calisto Tanzi e di Cirio con Sergio Cragnotti. La teoria degli insuccessi delle privatizzazioni è lunghissima.
Per non parlare di Autostrade: l’immagine tragica di quel disastro è il crollo del ponte Morandi. O dell’Alfa Romeo che finisce agli Agnelli e cosa stia succedendo all’automobile «fu» italiana è cosa di questi giorni: è in sosta vietata, immobile. Fatto cento la produzione industriale del ’91 nel 2000, cioè prima dell’Euro, la Spagna sale a 125, la Francia a 120, l’Italia a 117 e la Germania a 108. Nel 2013 l’Italia è ultima scendendo a 90, la Spagna crolla a 95 la Francia a 110 e la Germania sale a 127,5. Nel 2019 l’Italia resta ultima a 95,6 e la Germania vola a 131. Cosa è accaduto? Il vincolo esterno ha prodotto contrazione dei salari e crollo della produttività. Un grafico del ministero dell’Economia spiega bene. Fatto 100 la produzione nel 2000 si vede che nel 1990, prima delle privatizzazioni, l’Italia sta a 87, due punti sopra la media della zona-euro.
Nel 2000 l’entrata in vigore dell’euro e c’è il sorpasso a quota 105, nel 2023 il divario è di 30 punti (Italia 83, Eurozona 113. Nessun stupore dunque per i dati diffusi dalla Cgia di Mestre. Il centro studi guidato da Renato Mason certifica: «Tra il 2007 e il 2022 il valore aggiunto reale dell’attività manifatturiera italiana è sceso dell’8,4 per cento, in Francia del 4,4 per cento, mentre in Germania la variazione è stata positiva: più 16,4 per cento». I dati dicono che solo il Nord-est e la Lombardia sono oggi in crescita industriale: il mitico triangolo Torino-Genova-Milano degli anni Sessanta non c’è più. Il motivo? Non si fanno auto in Italia: siamo sotto i 300 mila pezzi. Giorgia Meloni ha polemicamente esortato l’ex famiglia Agnelli oggi Elkann a guardare agli interessi italiani. Ma Stellantis parla sempre più francese: Macron può arrivare fino al 10 per cento del capitale, con la quota della famiglia Peugeot gli italiani non hanno più il bastone del comando e peraltro la sede di Stellantis è in Olanda, gli stabilimenti Maserati di Grugliasco sono in vendita, le nuove auto si faranno in Marocco e stanno incoraggiando i terzisti a delocalizzare: siamo alla catena di smontaggio.
I cinesi hanno in mano il 60 per cento del mercato dei veicoli a batteria. Per l’Italia primo subfornitore dell’automotive tedesco significa che 450 aziende per 70 mila posti di lavoro sono destinate a sparire. La manifattura italiana è ridotta al perimetro di farmaceutica (+34,4) agroalimentare (+18) e macchinari (+4,3 per cento). Siamo usciti dalla chimica di base (-23,5 per cento in dieci anni) e quella che è rimasta lo scorso anno ha perso nove punti di produzione; siamo spariti dall’elettronica di consumo (-23,2 per cento) e basta ricordarsi che l’Olivetti produsse il primo personal computer per capire cosa è successo.
Anche altri settori tradizionali come legno, metallurgia, ceramica sono in profonda contrazione con il Sud che in 15 anni ha perso il 27 per cento del valore industriale. Un indice è la contrazione del 3 per cento dei consumi elettrici nel 2023. Fin dal 2003 il professor Luciano Gallino avvertiva in un saggio intitolato La scomparsa dell’Italia industriale: «Il nostro Paese ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato fra i primi al mondo. È il caso dell’informatica e della chimica. Resta in piedi un ultimo settore della grande industria, l’automobile, la cui crisi procede peraltro verso esiti al momento imprevedibili». Ci sono e resistono alcune leadership: a consuntivo 2023 la nostra bilancia commerciale dovrebbe esporre un avanzo attorno ai 23 miliardi (la crisi di Suez avrà però conseguenze profonde), ma c’è un deterioramento complessivo del tessuto produttivo che si riflette nei tavoli di crisi aperti al ministero delle Imprese e del Made in Italy.
Il ministro Adolfo Urso ha di fronte a sé 58 mila posti di lavoro cancellati. Che vi sia una tendenza globale alla deindustrializzione dell’Occidente è confermato dalle mosse dei grandi gruppi finanziari. Larry Fink, il capo di BlackRock – il più importante fondo d’investimento del mondo: un capitale amministrato superiore al Pil dell’Italia – sostiene che bisogna investire in infrastrutture e General Atlantics si è già comprata Actis, operatore d’infrastrutture. Perché tanto interesse per strade e ferrovie? Gli Stati non hanno più soldi da investire e con i pedaggi si guadagna bene soprattutto se per costruire si usano materiali e manodopera che vengono dai Paesi più poveri. E pensare che una volta gli americani c’invidiavano l’Autostrada del Sole.