Un decennio di crescita inarrestabile e oggi i Big Tech americani (Amazon, Apple, Meta e gli altri) vedono crollare le loro quotazioni in Borsa. La reazione è automatica e molto tradizionale: solo nel 2022 hanno licenziato decine di migliaia di lavoratori, puntando a una nuova fase di espansione. Che però non è così scontata: in Occidente, finita la pandemia, i consumatori hanno meno soldi e meno voglia di acquisti online. Basterà una «Grande correzione»?
«Ogni volta che hai una battuta d’arresto, usando resilienza e intraprendenza, inventa la tua via d’uscita fuori dagli schemi». Parole di Jeff Bezos, padrone e fondatore di Amazon, quando gli affari andavano bene. Ora il setback, la battuta d’arresto, c’è davvero e i Big Tech sono chiamati per la prima volta a reinventare sé stessi, dopo dieci anni di crescita tumultuosa in cui hanno sfornato mille miliardi di dollari di fatturato ogni anno. E si inizia nel modo più antico e tradizionale del mondo: i tagli di personale. Secondo i contatori del sito statunitense Layoffs.fyi, nel 2022 le 1.018 società del settore tecnologico americano hanno annunciato la cancellazione di 154 mila posti di lavoro. Sempre nel 2022, le quotazioni di borsa dei giganti della Silicon Valley al Nasdaq sono crollate, e per tenere alti i livelli di remunerazione promessi è necessario risparmiare sul personale.
Poi, c’è un riallineamento dei valori all’interno degli stessi Big Tech, come testimonia il caso di Google e Facebook che vedono il loro duopolio nella pubblicità vacillare di fronte alle sfide di Amazon e Apple. Siamo di fronte a una possibile bolla come quella della New economy nella stagione 2008-2009, oppure è una semplice crisi di crescita? I segnali indicano il secondo scenario: le aziende tecnologiche stanno atterrando dai grandi affari dell’epoca della pandemia e si stanno riorganizzando per una nuova fase di espansione.
Salesforce è una società californiana che offre nuvole e servizi connessi (cloud computing), fondata nel 1999, operativa in 36 nazioni e attiva anche su social e intelligenza artificiale. A gennaio 2022 aveva 73 mila dipendenti e nei giorni scorsi ha annunciato un taglio secco del 10 per cento della forza lavoro, oltre a risparmi su sedi e immobili. Nel piano consegnato alle autorità di Borsa, la Sec (Securities and exchange commission), Salesforce ha spiegato che i tagli di personale saranno portati a termine nel biennio 2023-2024 e il piano complessivo costerà tra 1,4 e 2,1 miliardi di dollari.
Il fondatore e capo azienda Marc Benioff ha scritto una lettera ai dipendenti in cui ha fatto una sorta di mea culpa: «Con l’accelerazione delle nostre entrate durante la pandemia, abbiamo assunto troppe persone che hanno portato alla crisi economica che stiamo affrontando e me ne assumo la responsabilità». Benioff ha anche aggiunto una preziosa indicazione sulla congiuntura, quando ha riferito che «il contesto rimane difficile e i nostri clienti stanno adottando un approccio più misurato alle loro decisioni di acquisto». Insomma, la frenata dell’economia Usa, innescata anche dall’aumento del costo del denaro, ha il suo peso: si vende meno e con più difficoltà.
C’è meno denaro in giro e si vede dalle quotazioni di Borsa. L’azione Amazon ha perso in un anno il 47 per cento e viene scambiata sugli 86 dollari. Una retromarcia preoccupante, anche se va ricordato che a gennaio del 2018 il titolo valeva 62,7 dollari e quindi siamo ancora in rialzo del 37,2 per cento. Il gigante che in dieci anni ha «disintermediato» l’intero commercio mondiale ha deciso di tagliare i costi e di far fuori 18 mila persone. Nel mondo, Amazon ha un milione e mezzo di dipendenti e non ha ancora indicato le nazioni toccate dai tagli. Si sa solo che anche l’Europa sarà coinvolta.
Che cosa è successo? Molto semplicemente, in Occidente è finita la pandemia, che aveva portato a un’esplosione degli acquisti online e delle consegne a domicilio, e anche qui si era largheggiato con le assunzioni. E il mercato di riferimento deve ora fare i conti con la maggior prudenza dei consumatori e con l’aumento del costo della vita. Wall Street sta picchiando duro pure su Google-Alphabet, che negli ultimi 12 mesi ha lasciato sul terreno il 36,2 per cento del valore. Anche qui, è giusto ricordare che se si guarda alle quotazioni di inizio 2018 si deve registrare un guadagno del 36 per cento. Google per ora non ha annunciato esuberi, ma la sua controllata Verily ha appena fatto sapere che licenzierà 200 dipendenti (10 per cento del personale): intanto, per la prima volta da otto anni, nel 2022 Google e Meta (che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp) hanno rastrellato meno della metà di tutta la pubblicità digitale degli Stati Uniti.
Si è fatta più arrembante la concorrenza non solo di Amazon, ma anche dei cinesi di TikTok e delle piattaforme di streaming come Netflix. In più, Google ha visto ridursi i tempi dell’utilizzo di internet nella fase post-pandemica. Nel medesimo contesto di mercato, segnato da un ritorno dei consumatori alle vecchie abitudini, si muove un altro gigante come Meta. Che però affronta una fase più delicata. Al Nasdaq, Meta ha perso ben il 60,8 per cento in un anno (il 30,7 in cinque anni) e a novembre ha annunciato 11 mila licenziamenti, ovvero il 13 per cento della forza lavoro totale. Anche Mark Zuckerberg ha spiegato la decisione con l’errata convinzione che il boom registrato durante il Covid-19 sarebbe andato avanti per sempre. Qui, però, c’è da registrare la grande fatica che incontra il business del Metaverso, finora un mezzo fallimento. Nel 2022 sono stati spesi nel nuovo Eldorado virtuale oltre 9 miliardi di dollari, ma i guadagni non sono arrivati. E alla fine pesano quei 30 mila collaboratori assunti da Meta in piena pandemia.
In fatto di scommesse, nessuno per ora sembra battere Elon Musk, che ha puntato 44 miliardi sul declinante social Twitter. Rinuncerà a Tesla, come credono in molti a Wall Street, o si renderà ubiquo? Intanto, in un anno le quotazioni del colosso automobilistico sono scese del 66,9 per cento a 113,06 dollari, ma è giusto ricordare che ai primi di gennaio del 2018 quegli stessi titoli valevano 22,3 dollari, meno di un quinto di oggi. L’inflessibile Musk, nel corso dell’estate, ha messo in cantiere un taglio del 10 per cento dei propri dipendenti motivandolo con i problemi nella catena di approvvigionamento e sui microchip.
Anche i tagli in casa Tesla non sono frutto di perdite o tragedie: nel 2022 c’è stato il record dei veicoli venduti, 1,3 milioni. Solo che gli obiettivi di crescita comunicati al mercato erano del 50 per cento, e ci si è fermati al 40. Gli investitori della casa automobilistica temono poi che Musk si distragga troppo con Twitter, dove a novembre ha messo alla porta 3.700 dipendenti su 7.500, spiegando che la piattaforma social perdeva quattro milioni di dollari al giorno. Sull’uccellino azzurro aleggia infine un’aria difficile sul fronte della pubblicità, con i grandi inserzionisti che stanno valutando come comportarsi con il cambio di policy di moderazione voluto da Musk.
Chi ha perso mille miliardi di dollari in Borsa in un anno è Apple. Il gigante guidato da Tim Cook ha visto le proprie quotazioni scendere del 24,7 per cento nel corso del 2022, anche se nel quinquennio si resta su una crescita mostruosa del 256 per cento. Qui non ci sono ancora annunci di tagli draconiani al personale, ma non stupirebbero più di tanto. La Mela sta pagando le grandi difficoltà per le spedizioni dei suoi iPhone14 Pro durante il mese di dicembre a causa delle restrizioni Covid applicate da Pechino nella fabbrica principale per la produzione degli smartphone.
In Cina, per inciso, Apple ha deciso finora di assemblare il 90 per cento dei suoi iPhone, ma ora sta aumentando la produzione in India. Più in generale, preoccupa l’impatto della crisi economica sulla domanda di prodotti di fascia alta. E non è un problema solo dei Big Tech.
Se si guarda alla Grande Correzione della Silicon Valley con le lenti della finanza e del contesto macroeconomico si spiega gran parte della ritirata di questi mesi. L’anno scorso, la Federal Reserve ha cominciato ad alzare vertiginosamente i tassi d’interesse dopo anni di denaro facile e la rotazione degli investimenti è andata a colpire i titoli tecnologici, per favorire i comparti più tipicamente difensivi come le utility, i beni di prima necessità e i servizi alla salute della persona.
Poi, con l’inflazione che ha rialzato la testa dopo la guerra, è cambiato lo scenario sul fronte della clientela, sia privata che aziendale. Le spese vengono tagliate o rinviate, come testimoniano le difficoltà di vendere i servizi cloud se non assicurando periodi più lunghi e sconti vari. Infine, è sicuramente vero che la pandemia cinese ha garantito ai Big Tech un biennio di affari d’oro, nel corso del quale non si è badato a spese nell’assumere personale. Ma adesso la gente torna in ufficio, nei negozi, al ristorante e alle vecchie abitudini anche per il tempo libero.
La sensazione, guardando alla congiuntura di un settore con un flusso di ricavi e dividendi comunque notevole, è che non si sia di fronte a una bolla che si sgonfia, ma a una fuoriserie ferma per fare un tagliando. E nel tagliando rientrano le riduzioni di personale e l’addio a stipendi da favola come i 450 mila dollari l’anno di un ingegnere senior di Stripe, piattaforma di pagamenti online, o il milione raggiunto da alcuni colleghi di Facebook. Il lato positivo della dieta dimagrante in atto, visto dalle società più piccole e dalle startup, è anche la possibilità di assumere ottimi tecnici e cervelloni vari in uscita dai Big Tech.
Per il futuro, tra le varie previsioni vale la pena registrare quella degli esperti di Axios, tra i migliori siti specializzati nelle nuove tecnologie, per i quali «i licenziamenti sono forse destinati a proseguire, con le società che devono ridimensionare gli organici e che si sentono forzate a fare ciò». A spingerle, continua Axios, è la volontà di «incrementare i profitti e dare soddisfazioni agli investitori, mantenendo la struttura dei costi competitiva con i rivali». L’altra motivazione è mettersi in linea con un calo della domanda, in una fase in cui l’economia sembra entrare in recessione. Nulla di tutto questo esclude una ripartenza nel giro di un paio d’anni, magari con un altro ciclo economico.
Senza voler mancare di rispetto alla solidità dei Big Tech, ci sarebbe da registrare anche la crisi del settore Fintech e delle criptovalute in particolare, dove tutti i principali «attori» stanno mandando a casa tra il 20 e il 40 per cento del personale dalla fine dell’anno scorso. Un ruolo lo giocano anche gli scandali, come quello della piattaforma cripto FTX fallita con un buco da 8 miliardi di dollari, garantiti prevalentemente da token, i gettoni digitali. In serie difficoltà è anche l’americana Silvergate, colosso bancario «ibrido», che offre sia servizi finanziari tradizionali sia con criptovalute, che ha visto un crollo dei depositi del 60 per cento e le sue azioni andare a picco in borsa.
Qui vale la pena riportare una provocazione delle scorse settimane di Warren Buffett. L’anziano finanziere, i cui consigli sono sempre seguitissimi a Wall Street, ha raccontato: «Se uno mi dicesse di possedere tutte le criptovalute del mondo e me le offrisse per 25 dollari, non le prenderei, perché che cosa ci dovrei fare? Dovrei rivendergliele in un modo o nell’altro. Non servirebbe a nulla». Le azioni delle varie Amazon, Tesla e Meta, invece, continueranno a essere scambiate e a generare dividendi e soldi veri. In fondo, si può guardare ai problemi di oggi come a una crisi di crescita che la pandemia aveva solo ritardato. n
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