Q sta per «quick», veloce. È l’evoluzione degli acquisti online, che in Italia guadagnano terreno e, dopo la vastità dell’offerta, puntano sulla rapidità. Pochi minuti, o addirittura 540 secondi, e si ricevono a domicilio prodotti alimentari, farmaci, fiori, profilattici. A consegnarli sono start-up e vecchi colossi che soddisfano l’accelerazione dei bisogni di una collettività pigra e impaziente. Affidando i ritmi e le dinamiche del lavoro a un algoritmo. Con tutte le incognite del caso.
Gli ingredienti per la pasta quando l’acqua sta per bollire; una bottiglia di vino, con gli ospiti già accomodati sul divano. Un regalo dimenticato a una festa ormai iniziata: giocattoli, fiori, un gingillo tecnologico, una qualunque salvezza con il fiocco. Una nuova lampadina se la vecchia si è appena fulminata, la medicina per la gola al primo accenno di tosse, magari i preservativi durante i preliminari. L’essenziale più il superfluo che non si può, o non si vuole aspettare. Una sovrabbondanza di cose, ordinabili attraverso una app, recapitate in un tempo minimo. Anche inferiore ai dieci minuti.
È il «quick commerce», per sveltezza (e coerenza al tema) abbreviato in q-commerce: la versione veloce, surriscaldata dell’e-commerce. Secondo gli ultimi dati degli Osservatori digital innovation del Politecnico di Milano, nel 2021 gli acquisti online in Italia hanno sfiorato i 40 miliardi di euro di valore, in aumento del 21 per cento rispetto a 12 mesi prima. E stanno cambiando marcia, mettendo il turbo con la complicità della pandemia, che ha impigrito la società, l’ha resa impaziente, desiderosa di piaceri fulminei. Soddisfatti da una galassia di start-up e nomi storici delle consegne a domicilio (vedi le schede in queste pagine), partiti dalle grandi città e in espansione sul territorio nazionale.
«La tendenza della rapidità nel commercio è cresciuta del 420 per cento negli ultimi 18 mesi, quella della ricerca di una gratificazione istantanea del 20 per cento solo a gennaio rispetto a dicembre» conferma Luca Morena, co-fondatore e amministratore delegato della piattaforma Nextatlas, che scandaglia i social network e usa l’intelligenza artificiale per capire, e predire, i bisogni della contemporaneità. «Che transitano anche da brandelli di soddisfazioni fugaci, effimere. Un modo per tenere lontano un futuro fumoso con un effetto di certezza quasi magico».
In effetti, la prova sul campo lascia stupiti: secondo il cronometro, trascorrono 540 secondi dalla conferma del pagamento al citofono che suona. Il rider porge una busta di banane, marmellata, tè e fette biscottate, abbastanza per imbastire una colazione rimanendo in pigiama. Certo, dipende dalla zona di residenza e dalla congestione della fascia oraria, però i dati supportano l’esperienza: «In Italia il tempo medio di preparazione per il processo d’imballaggio ed evasione dell’ordine dal magazzino è di 83 secondi» fanno sapere dalla tedesca Gorillas, presente in 60 città del mondo e capace di raccogliere, lo scorso ottobre, quasi un miliardo di dollari di finanziamenti in una volta sola. Usati, probabilmente, per pagare specialisti dello sprint più che normali addetti, sebbene in una nota inviata a Panorama la società si affretti a precisare: «Gorillas non ha mai favorito la consegna in 10 minuti a discapito delle condizioni di lavoro e del benessere dei propri dipendenti, non remunerati in base alle velocità delle consegne». Certo che, il sospetto suona lecito, se si dimostrano delle lumache non faranno molta strada.
Vista l’urgenza del recapito, lo schema in consolidamento prevede l’impiego di «dark store», negozi chiusi al pubblico, corridoi senza casse di soli scaffali, con la merce pronta da prendere e trasportare altrove. In Italia, Gorillas ne conta 21, Glovo 15, Macai (vedi intervista a pag. 44) punta a 8. La turca Getir, che è già stata valutata quasi 8 miliardi di dollari, in pochi mesi è salita a 18: 10 a Milano, 8 a Roma, dov’è appena sbarcata. «Negli Stati Uniti, questi spazi stanno iniziando a modificare il paesaggio urbano» osserva Morena: «Per esempio, nel centro di New York, alcune vetrine che nascondono un dark store sono state trasformate in cartelloni pubblicitari. Si vede che a livello economico conviene di più utilizzarli come magazzini per le aziende di delivery e per vendere annunci anziché aprirli allo shopping del pubblico».
«Se non usciamo più di casa per fare la spesa, non meravigliamoci se i marciapiedi non saranno più nostri» è critico Enrico Postacchini, responsabile commercio e città di Confcommercio. Che rileva due criticità legate al modello del q-commerce: «Non permette di scegliere la merce, arriva quel che arriva. Evidentemente si rivolge a un pubblico meno esigente e attento». E poi: «Non distribuisce la stessa ricchezza sul territorio, non lascia il medesimo beneficio alla comunità nella quale opera. Le realtà globali, le multinazionali, non pagano le stesse tasse dei negozi di quartiere. Se non si uniformano le regole, la lotta non solo è impari. È ingiusta».
Fatto sta che per strategia o convenienza, le piattaforme più consolidate hanno preso ad allearsi con supermercati locali e grande distribuzione. Per garantire capillarità e velocità, devono rifornirsi il più vicino possibile al domicilio del cliente: Glovo, che ricorre ai suoi centri di stoccaggio in 8 città per l’opzione Express, con arrivo del corriere entro 20 minuti, collabora con supermercati e botteghe di prodotti di ogni genere (dai fiori alla cosmetica, dagli utensili per la cucina agli accessori erotici) per consegne un filo più lente, comunque intorno alla mezz’ora. «Nel 2020 abbiamo avuto un +300 per cento di adesioni dei negozi di vicinato, nel 2021 un +250 per cento. Vogliamo diventare l’app per la città, sbloccando il suo inventario, lavorando con tutti gli esercenti commerciali locali che hanno visto come sia sempre più importante avere un canale digitale che possa associarsi al canale fisico» fanno sapere dalla piattaforma. Identica la direzione presa da Deliveroo, che ha stretto accordi anche con nomi consolidati come Carrefour o Conad e con partner indipendenti. Intanto, crescono le variazioni sul tema: Winelivery si è specializzata in vino, bevande alcoliche e non, snack per gli aperitivi, tutto disponibile nel giro di mezz’ora; Just Hemp si palesa in 90 minuti a domicilio a Roma e Milano con una selezione di erba e marijuana legale; JustMary, sempre nel segmento della cannabis legale, arriva con i suoi fattorini pure a Firenze, Catania, Napoli e altri centri.
L’azienda che può fare la differenza, per stazza, blasone e mezzi, è però soltanto una, la solita: Amazon. «Ci sono momenti in cui la rapidità è fondamentale, per esempio quando si ha una necessità last minute, e momenti in cui si preferisce programmare la propria spesa settimanale e riceverla in orari a scelta» spiega Myriam Galletti, responsabile marketing per Amazon.it. Che va incontro a entrambe le esigenze in sempre più codici postali, con i servizi Consegna oggi (2 milioni di prodotti recapitati entro le 22 dello stesso giorno dell’ordine) e Fresh (la spesa anche in una finestra di un’ora).
La traiettoria verosimile è una frammentazione della richiesta, una moltiplicazione di pacchi, una minaccia per la sostenibilità su strade sempre più soffocate dai mezzi privati: «In realtà, lo shopping online è già intrinsecamente più efficiente in termini ambientali rispetto agli acquisti in negozio, come emerso da un recente studio condotto dal big della consulenza Oliver Wyman» ribatte Galletti. Che aggiunge i dettagli: «L’e-commerce genera da 1,5 a 2,9 volte in meno di emissioni di gas serra, consente di risparmiare da quattro a nove volte il traffico generato dallo shopping nei negozi e le consegne ai clienti rappresentano lo 0,5 per cento del traffico totale nelle aree urbane».
Mentre noi lasciamo l’auto in garage e aspettiamo impazienti buste e pacchi, sono i fattorini a farsi carico di soddisfare con immediatezza i nostri bisogni, di mantenere le promesse delle app. E qui sì che il modello tende a farsi insostenibile: «I numerosi operatori che ormai offrono di tutto puntando sulla rapidità aprono la strada a possibili forme di sfruttamento» rileva Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Da un recente rapporto a cura dell’ente e dedicato agli addetti delle piattaforme digitali, in Italia circa 570 mila persone, si scopre che per l’80,3 per cento di loro l’impiego non è un lavoretto per arrotondare, «ma una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale». Eppure, «oltre il 31 per cento non ha un contratto scritto e solo l’11 per cento da lavoro dipendente. Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile. Di una nuova precarietà digitale». Esposta, prosegue il rapporto, a rischi di caporalato («condizioni di ridotta autonomia e sospetti di rapporti irregolari») e schiavitù dell’algoritmo («il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto, nel 59,2 per cento dei casi, è quello legato al numero di incarichi portati a termine»). «Per garantire il rispetto dei diritti fondamentali» suggerisce Fadda «sono necessarie sia norme regolative sia serie forme di contrattazione».
Con il q-commerce si riscrivono le regole dello shopping, si ridefinisce la geografia delle città, si accelerano le metamorfosi dei mestieri. Si aprono questioni non risolvibili con fugaci liberalità elargite attraverso uno schermo (Gorillas parla di 5 milioni di euro di mance distribuite nel 2021 dagli utenti ai fattorini), ma affrontando il tema della velocità con rapidità. Con la consapevolezza della sua urgenza.