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L’euro si è «impantanato»

L’euro si è «impantanato»

Nel Vecchio continente si scontrano due concezioni economiche, espresse da due debolezze politiche: la francese e la tedesca. Intanto, la Bce sbaglia le strategie sui tassi. E l’Italia? Nell’incertezza generale ha alcuni spazi di manovra… da sfruttare.


È il D-day, dove «d» sta per deficit eccessivo. Passate le elezioni, a Bruxelles torna la centralità dell’economia. L’Europa è a un bivio. Direbbe Soren Kierkegaard: siamo alla «lotta tra la nuova e la vecchia bottega del sapone». Per dirla filosoficamente, tra l’idea germanico/luterana che il bilancio sia tutto (l’essenza hegheliana) e l’idea cristiano/mediterranea che i soldi servono per campare (esistenza kierkegardiana). C’è da decidere se la stretta sui tassi d’interesse serva davvero, se ci sono sufficienti investimenti per non soccombere nella sfida Stati Uniti-Cina, se sul nucleare si va avanti insieme, così come sul sistema bancario piuttosto che sulle politiche fiscali, se si fanno gli approvvigionamenti energetici e di materie prime comuni unica prospettiva in cui è accettabile l’attuale debolezza dell’euro. Che diversamente rischia d’impantanarsi. «Vasto programma» avrebbe detto, ironicamente, il generale Charles de Gaulle.

Oggi in Europa si confrontano due debolezze: quella francese originata dal debito, dall’ipertrofia burocratica e dall’erosione dei redditi; quella tedesca che ha un modello economico in crisi (era basato su moderazione salariale, energia quasi gratis dalla Russia ed export forsennato in particolare in Cina), un welfare troppo oneroso, un’inflazione insopportabile per i bassi redditi. Emmanuel Macron e Olaf Scholz nelle urne sono stati condannati. Invece di immaginare una correzione di rotta si ricomincia il percorso da dove si era terminato. Dal 19 giugno partono le procedure d’infrazione: nella lista dei cattivi ci sono 12 Paesi e viene da chiedersi: se il 40 per cento dei bilanci pubblici europei sono fuori dai parametri del famigerato Patto di stabilità è possibile che le regole siano burocraticamente perfette, ma realisticamente sbagliate?

È possibile che il Patto di stabilità sia nato «vecchio»? Tra gli Stati, due sono i cattivissimi: l’Italia e la Francia. Con una differenza: i nostri conti pur gravati da un debito elefantiaco (circa 2.900 miliardi di euro) hanno una traiettoria di miglioramento. Confcommercio ha stimato possibile una crescita del Pil superiore a un punto; per gli artigiani di Mestre il Paese genera 5,8 miliardi di prodotto interno al giorno, l’occupazione è ai massimi e Fabio Panetta, il governatore di Banca d’Italia è stato esplicito: «L’Italia ha enormi potenzialità per tornare a crescere». Perché accada bisogna guardare in Europa e svegliarla. I conti di Parigi con Emmanuel Macron che ha chiamato i francesi alle urne in fretta e furia vanno invece molto male. Lo provano i giudizi delle agenzie di rating. Il nostro Paese – si veda Moody’s – viene lasciato in serie B con prospettiva stabile, Oltrealpe Standard & Poor’s ha declassato il debito. Le conseguenze sono state immediate: lo spread con il Bund tedesco è al record dell’anno (anche a noi converrà fare attenzione ai differenziali di rendimento: lo spread francese e italiano vanno di conserva e non è un bene); la Borsa ha fatto un tonfo punendo soprattutto le banche. Il debito viaggia oltre il 112 per cento del Pil (oltre 3.200 miliardi) e la crescita stenta.

Il duo Bardella-Le Pen che sfida Macron ha un programma di spesa robusto tra sostegno alle pensioni, riduzione di tariffe e Iva, sostegno sanitario. Vuole dirottare 500 miliardi di euro dal risparmio privato a cui lo Stato offre un rendimento garantito alle imprese, rilancia il piano nucleare. In Germania Olaf Scholz è alle prese con il Pil che langue (0,2 per cento in più se va bene), due terzi di tedeschi che non lo votano, l’inflazione (più 2,4 per cento) che aumenta e questo condiziona la Bce, con la produzione industriale che continua a scendere (meno 3,9 per cento su base annua). La recente decisione della Commissione Ue sui dazi alle auto cinesi vede su fronti opposti Parigi e Berlino, una favorevole l’altra contaria.

Il motivo? Pechino è il primo cliente della Germania e in risposta pensa al superbollo ai modelli tedeschi di grossa cilindrata. Il cancelliere – sempre per rispettare le pari condizioni di mercato in Europa – ha destinato 55 miliardi di euro per cercare di risollevare produzione e vendite di elettriche nel suo Paese: Volkswagen, Audi e Bmw hanno scommesso sulle auto a pila ma le fabbricano per oltre il 70 per cento dei componenti in Cina e l’effetto si vede: la società ZF che produce cambi ha già chiuso due stabilimenti e licenziato 12 mila operai. Scholz spera che l’industria militare – da Rheinmetall ad Hensold – assorba quelli che Volkswagen o Audi lasciano a casa: la produzione di auto è crollata del 7,6 per cento. Intanto, il Paese cade a pezzi. Secondo la Bild 16 mila ponti e 714 mila chilometri di strade sono da rifare: servono almeno 25 miliardi. E alle ferrovie, sostiene il ministro dei Trasporti, il liberale Volker Wissing, hanno bisogno di altri 40 miliardi. Ce ne sarebbe d’avanzo per convincersi che in Europa bisogna allargare i cordoni della borsa. E invece Berlino tiene il punto del rigore ormai con solo quattro alleati (peraltro di segno politico contrario): l’Austria, la Finlandia, la Svezia e l’Olanda. Anche il fronte dei Paesi frugali però si è rotto. La danese Mette Frederiksen – aggredita durante la campagna elettorale – è la sola del gruppo che vanta un Pil in forte espansione (più 1,9 per cento grazie alle industrie chimico-farmaceutiche), ma ha chiesto più debito comune.

Sarà quello che Mario Draghi – resta il candidato anti Ursula von der Leyen di Macron – dirà tra una settimana al Consiglio europeo presentando il suo rapporto sulla competitività: se non vogliamo diventare marginali bisogna investire minimo 500 miliardi di euro. altrimenti gli Stati Uniti che stanno rappropriandosi della manifattura, e la Cina con le tecnologie ambientali, ci faranno fuori. L’ex premier italiano insisterà per trasferire risorse dal risparmio privato alle imprese con un’unica Borsa europea e con l’emissione di Eurobond. Anche perché il mercato, fiutando l’addio al Green deal, sta fuggendo dagli Esg (sono gli investimenti finanziari green). Si profila anche una tassa europea per allargare il budget comunitario (oggi pari a circa l’1 per cento del Pil continentale) compensata da una politica monetaria espansiva. Ma Christine Lagarde – ha ulteriormente diminuito l’acquisto titoli – non cede. La presidente della Banca centrale europea – dopo il mini taglio d’inizio mese dello 0,25 del tasso di riferimento – ha già detto che resterà molto prudente. Sostiene che l’inflazione fa ancora paura e Isabel Schnabel – che la Bundesbank le ha messo alle calcagna – molla la presa. Questa pretesa tedesca («ciò che va bene per Berlino va bene per l’Europa») s’incrocia con i timori di Lagarde che aspetta le mosse della Federal Reserve.

Solo che il suo numero uno Jerome Powell ha a che fare con un’economia americana ipertrofica e ha già detto che fino a settembre non ritoccherà i tassi. L’Eurozona al contrario è sull’orlo della recessione. Gli Usa hanno l’inflazione al 3,3 per cento, di qua dall’Atlantico siamo al 2,2. Ma la Lagarde spaventata dall’euro che da inizio giugno soffre contro dollaro e per evitare la fuga dei capitali Oltreoceano è pronta a «imbalsamare» l’economia. Non si accorge che a fuggire dal Vecchio continente oggi sono le imprese. Perciò la discussione sulla traiettoria economica dell’Europa uscita dalle urne diventerà accesa e si prevedono due fronti: la Germania arroccata su posizioni conservatrici, la Francia costretta a dare ragione ai Paesi ad alto debito. Per l’Italia si apre uno spazio decisivo. Quello che rivendica il governatore di Bankitalia Fabio Panetta: l’Italia deve contare di più in Europa, servono tassi accomodanti ed espansivi, c’è bisogno di una più forte integrazione.

Un compito – visti i risultati – meno arduo di ieri a cui potrebbe applicarsi Giancarlo Giorgetti, il nostro ministro dell’Economia, dato per molti in procinto di diventare commissario europeo. Ma a quel che si sa Giorgia Meloni punta oltre che alla vicepresidenza della Commissione, a ottenere il commissario alla Difesa o alla Concorrenza. Il lavoro di Giorgetti per cambiare l’economia europea potrebbe continuare da via XX Settembre in seno all’Ecofin. Dopo tutto è ministro del solo governo tra i grandi che non è stato bocciato nelle urne e che ha l’economia (un po’) in espansione.

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