Dopo l’invasione russa in Ucraina, la distribuzione del cereale cruciale come alimento di popolazioni in aree critiche attraversa momenti difficili sulle rotte globali. Anche perché gli accordi – per quello che c’è – portano in Cina.
Vestiti in impeccabili uniformi bianche, gli ammiragli al comando delle flotte militari turca, bulgara e romena hanno annunciato lo scorso primo luglio l’avvio delle operazioni di Mcm Black Sea, una task force congiunta che sovraintenderà le operazioni di sminamento nel Mar Nero. Durante le fasi iniziali dell’invasione dell’Ucraina, infatti, le forze russe avevano riempito di ordigni le acque a largo delle coste nemiche. Alcune mine sono però andate alla deriva nel tempo, rendendo pericolosa la navigazione nel bacino. Sebbene non sia l’obiettivo dichiarato, l’attività servirà anche, e soprattutto, ad agevolare il nuovo corridoio del grano ucraino.
Dopo che un anno fa Mosca si è chiamata fuori dall’accordo che aveva permesso a Kiev di esportare via mare la sua consistente produzione cerealicola (nel 2024 si aggira intorno ai 50 milioni di tonnellate, di cui circa una ventina di grano), il governo di Volodymyr Zelensky ha escogitato una soluzione alternativa. Ha istituito una nuova rotta che dal porto di Odessa tocca le coste orientali del mar Nero, attraversando le sicure acque territoriali dei suoi vicini, fuori dalla portata dei missili russi, fino allo stretto dei Dardanelli, da cui poi i cargo si disperdono diretti verso le loro mete in tutto il mondo. Un escamotage che ha permesso all’Ucraina, considerata un granaio mondiale, di tornare a esportare volumi significativi dei frutti della sua terra martoriata: prima del conflitto, infatti, copriva da sola un decimo del fabbisogno mondiale di frumento, mais, orzo e semi di girasole.
A febbraio, grazie alla rotta alternativa, sono riuscite a lasciare il Paese più di cinque milioni di tonnellate di prodotti agricoli: una cifra da record in tempo di guerra. Non è comunque detto che, anche con le coste sgombre, Kiev riuscirà a mantenere un tale livello di esportazioni, visto che i carichi partiti negli scorsi mesi erano stati rimpolpati con gli arretrati rimasti nei silos durante i mesi precedenti. La produzione ucraina deve infatti fare i conti con la perdita dei fertili territori orientali e meridionali, i cui raccolti ora arricchiscono Mosca, sia con i danni provocati da due anni di conflitto, che stime interne quantificano in almeno ottanta miliardi di dollari, tra campi devastati dalle bombe o troppo vicini alle linee nemiche, infrastrutture distrutte e macchinari agricoli fatti a pezzi. Solo gli attacchi aerei contro i silos del porto di Odessa hanno ridotto in cenere 60 mila tonnellate di grano, una quantità che da sola sarebbe state sufficiente a sfamare per un anno più di un quarto di milione di bocche. Nonostante l’importanza del grano ucraino sui mercati del globo, la ricaduta sui prezzi mondiali è stata contenuta.
Dopo essere schizzati in alto nei primi mesi di guerra, sfiorando un aumento del 30 per cento, sono gradualmente rientrati, attestandosi su un aumento complessivo tra il due e il tre per cento. A calmierare i mercati è l’ampia disponibilità di fonti alternative da cui approvvigionarsi, visto che si raccoglie il cerale dal Canada all’Australia, dalla Spagna all’India. «La situazione dei prezzi sui mercati degli alimenti di base è piuttosto stabile al momento» spiega Monika Tothova, senior economist nella Divisione commercio e mercati della Fao, l’organizzazione dell’Onu per l’alimentazione. «Vale la pena di sottolineare come le colture primarie siano coltivate in diversi continenti, creando dei cuscinetti nel caso in cui, per esempio, eventi climatici estremi colpiscano la produzione in alcune aree del mondo. In un caso come questo, i diversi Paesi possono importare cereali come il grano da altri luoghi, cambiando zona di approvvigionamento». Per quanto ridotti, gli aumenti di prezzo non sono affatto una buona notizia per le popolazioni più povere del pianeta, che per nutrirsi spendono fino a tre quarti del proprio salario, né per chi, come i profughi del Sudan e di molti altre aree critiche interessate da conflitti e tensioni, dipende da aiuti internazionali per la sopravvivenza. Si stima che le conseguenze sui prezzi dei cereali degli scontri che proseguono in Ucraina spingeranno sotto la linea della fame 23 milioni di persone in più entro il 2030.
Poi, c’è chi invece ha saputo approfittare della situazione a proprio favore: la Cina, spinta dal suo appetito inesauribile di risorse primarie. Pechino è infatti diventata il più grande importatore di cibo al mondo, arrivando a spendere ogni anno 140 miliardi di dollari per farne arrivare abbastanza e soddisfare le esigenze dei suoi oltre 1,4 miliardi di cittadini. Due sono le principali cause che rendono la produzione interna insufficiente: la prima è che il Paese, nonostante ospiti un quinto della popolazione umana, dispone di meno di un decimo della superficie arabile del mondo. Percentuale peraltro in calo, a causa di pratiche agricole insostenibili che impoveriscono il terreno di elementi nutritivi e della cementificazione aggressiva per far spazio a infrastrutture e palazzi. Inoltre, i contadini cinesi si devono scontrare con la scarsità d’acqua, che colpisce peraltro molte delle regioni vocate alla coltivazione del frumento.
Ma a spingere la ricerca di nuovi approvvigionamenti del gigante asiatico è anche l’evoluzione delle abitudini di consumo dei suoi abitanti, sempre più ricchi e con nuovi bisogni. Con una classe media che ormai include un cittadino su due, cresce la richiesta di una maggiore varietà e quantità di alimenti: un esempio su tutti è il consumo di carne, triplicato negli ultimi trent’anni. Il presidente Xi Jinping è ben conscio dell’importanza del cibo per la tenuta del consenso interno, tanto da essere intervenuto personalmente a impartire direttive sull’argomento decine di volte negli ultimi anni. Tra i tavoli su cui il suo governo sta giocando per il controllo di risorse cruciali per l’alimentazione, c’è anche la partita russo-ucraina. Durante il periodo in cui è stato in vigore l’accordo per il primo «corridoio del grano», la Cina ha ordinato ingenti quantitativi di quello ucraino, naturalmente acquistato a prezzo scontato a fronte dei maggiori rischi di sicurezza. Una proposta che il governo di Volodomyr Zelensky, pur comprensibilmente non entusiasta di avere come cliente il maggior partner strategico dell’invasore russo, non ha potuto rifiutare una volta fatti i conti.
Il leader cinese non si è comunque dimenticato dell’amico del Cremlino e nel 2022 ha inaugurato il suo New Land Grain Corridor, il primo terminal ferroviario al mondo specializzato per il trasporto dei cereali, che connette la Cina gli Stati dell’Unione economica eurasiatica, vale a dire Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e, soprattutto, Russia, facendo aumentare le proprie importazioni di grano da quest’ultima del 78 per cento. In aggiunta, grazie alla nuova infrastruttura, che muoverà 22 mila container alla volta, lo scorso ottobre Xi Jinping e Vladimir Putin hanno siglato un accordo imponente in base al quale la potenza eurasiatica si impegna a vendere 70 milioni di tonnellate di cereali e semi oleosi al vorace vicino nell’arco dei prossimi dodici anni, per un controvalore di oltre 25 miliardi di dollari. È un patto che ha un’utilità geopolitica oltreché economica: Mosca può ridurre l’impatto delle sanzioni occidentali sulle sue esportazioni agricole e potenzialmente raggiungere nuovi, ulteriori mercati in Asia orientale. Pechino può diversificare ancora di più le proprie fonti di approvvigionamento, mettendosi al riparo da un eventuale embargo commerciale statunitense e da interruzioni nella catena di fornitura, come quelle che si sono verificate negli scorsi mesi nel Mar Rosso, con gli attacchi dei miliziani houthi alle navi cargo occidentali, e a Panama, dove la siccità ha ridotto la capacità di transito del canale. Per il presidente cinese la sicurezza alimentare del Paese è insomma questione strategica e non solo politica. Del resto, nel libro L’arte della guerra il leggendario stratega cinese Sun Tzu scriveva: «Un esercito senza grano e cibo è perduto». E c’è da scommettere che il Dragone, nella sua battaglia per la supremazia globale, non intenda farsi sconfiggere da un attacco di fame.