Ad Asolo, vicino a Treviso, due sposini si sono detti «sì» e poi hanno festeggiato con un pranzo nuziale versione drive in: invitati in auto con i finestrini abbassati e camerieri che porgevano cibo e «bollicine» tra fanfare di clacson. L’amore trionfa sempre, dice qualcuno, ma con il Covid costa compromessi che in pochi sono disposti ad accettare. E allora il «sì» viene rimandato, e rimandato, e rimandato. I dati dell’Istat lo confermano: nell’ultimo anno i matrimoni si sono dimezzati (da 170 mila del 2019 a 85 mila del 2020), con il dettaglio delle unioni religiose precipitate a meno 70 per cento.
Ma mentre gli sposi promessi sono costretti a posporre un sogno, per qualcun altro questa sospensione è un incubo: tutti quelli, e sono tanti, che con le cerimonie ci campano. «Il numero di unioni mancate non riflette il valore perduto in termini economici, ed è un disastro» analizza Serena Ranieri, a capo di Federmep, prima associazione di categoria nazionale nel settore matrimoni, un insieme di professionisti e aziende che compongono questo mondo punito dalla pandemia. «Nell’ultimo anno c’è stato un crollo di circa il 90 per cento del fatturato rispetto all’anno precedente: da 15 miliardi a 1,5. Parliamo di una filiera con circa 25 differenti tipologie di lavoro per 300 mila persone impiegate stabilmente che con i lavoratori stagionali arrivano a 900 mila».
Intorno a quell’altare ci vivono il piccolo artigiano, il wedding planner, i 120-130 dipendenti che può arrivare ad avere la location di ricevimento, il musicista, chi stampa le partecipazioni e il calligrafo che le verga a mano. E ancora: chi noleggia auto d’epoca, chi lava le tovaglie, chi ha investito in un confettificio. Estetiste e parrucchieri che incassano grazie a futura sposa e invitati tutti. I fotografi-filmaker si considerano una categoria «deceduta per Covid», come recitavano alcuni cartelli apparsi durante una delle tante manifestazioni che hanno punteggiato l’Italia nei mesi scorsi. Mentre a Bitonto (Bari) ha fatto notizia la protesta dello stilista Giulio Lovero che ha esposto in vetrina, per San Valentino, un macabro abito da sposa nero. E come lui le tantissime boutique specializzate in veli, tulle, strascichi e via dicendo sono rimaste con i caveau pieni di creazioni che il prossimo anno non andranno più. Con le mani in mano sono costretti a rimanere anche i floral designer, che davano da lavorare al florovivaismo, filiera in via di appassimento anche a causa dello stop alle cerimonie: 27 mila imprese, 200 mila posti di lavoro, un crack di 1,7 miliardi di euro.
Un «di cui» rilevantissimo è poi quello del «destination wedding», il settore di chi organizza matrimoni di stranieri danarosi. Gli innamorati indiani sono capaci di trainare carovane da 500 invitati in location esclusive dello Stivale, dal Lago di Como alla Puglia. Con il blocco dei viaggi nessuno si è più mosso e il tracollo è stato verticale, praticamente del 100 per cento. «Nel 2020 in Italia erano prenotati 221 mila matrimoni, di cui 9 mila stranieri» spiega Michele Boccardi, presidente di AssoEventi Confindustria. «Ma quel tre per cento proveniente dall’estero è molto ricco e crea un indotto economico capace di fatturare 3 miliardi contro i 7 generati dagli italiani». Una gallina dalle uova d’oro che negli ultimi anni, soprattutto, stava valorizzando l’Italia come meta romantica d’eccellenza. Poi lo stop, le perdite, i ristori elargiti con il contagocce e aggiungendo la beffa al danno: «Sono stati calcolati su aprile, un mese in cui lavoriamo poco e niente, se di mezzo c’è la quaresima» racconta Boccardi. «Io ho una masseria che da 25 anni organizza matrimoni. Il mio bilancio nel 2019 è stato di 4 milioni e 230 mila euro, nel 2020 è sceso a 230 mila. Dallo Stato ho avuto 10 mila euro. Ci hanno sempre accomunati ai ristoranti ma questo è un comparto ben diverso, che il passato governo non è riuscito a inquadrare se non attraverso codici Ateco inadeguati: ne abbiamo contati 80. È urgente che si superi questo strumento, o comunque che si identifichi il comparto con un codice proprio». «Da una parte sarà fondamentale dare i giusti ristori» dice ancora Serena Ranieri «dall’altra stabilire le regole per ripartire in qualche modo. Siamo consapevoli che l’andamento del virus non è prevedibile, ma si dovrebbero creare protocolli per mettere in sicurezza i matrimoni e riuscire a festeggiare, seppur tra distanze di sicurezza, disinfettanti e mascherine».
Che poi è ciò che chiedono le stesse ragazze costrette a rimandare continuamente le nozze. Qualcuna si dichiara «sull’orlo di una crisi di nervi» sul gruppo Facebook «Spose guerriere», a cui si sono iscritte a migliaia per condividere le tante disavventure, tra caparre perdute e relazioni diventate difficili. «Sarò sincera, io non ce la faccio più» ammette Teresa Salvatore, che con Giada Curatola si è inventata in ottobre questa piazza virtuale. «Io e il mio fidanzato dovevamo sposarci il 1° luglio, poi il 14 dicembre, ma siamo capitati nei Dpcm sbagliati e ora la data è di nuovo fissata al 9 agosto 2021. Rimandare costa, ci ho già rimesso migliaia di euro tra penali, partecipazioni da rifare, abito prima estivo, poi invernale, poi estivo di nuovo. Basta, vogliamo sposarci!».
Talvolta il tema non è il matrimonio in sé, ma il fatto che non convolare interrompe un progetto di vita. «Per tanti è ancora vivo il rispetto della tradizione, soprattutto al Centro-sud, e senza un anello al dito non si va a convivere: questo significa che alle problematiche economiche si devono sommare varie ricadute sociali come, per esempio, due anni di figli che non nascono» riflette Ranieri.
«Io e il mio fidanzato non troviamo pace» dice ancora Teresa Salvatore. «Continuiamo a vivere ognuno con i propri genitori, in comuni diversi. Abbiamo una casa in costruzione ma i lavori procedono al rallentatore. Lo stress emotivo è altissimo. Siamo cattolici e un figlio lo vorremmo fare dopo il matrimonio. Ma quando? Per questo protestiamo da “Spose guerriere”: non vogliamo tamponi, che sarebbero troppo costosi e inutili, né il “liberi tutti” dell’estate scorsa, perché il virus si è diffuso tra cerimonie e feste e alla fine ha portato il blocco totale. Io faccio la farmacista, so quanto è importante proteggersi. Chiediamo che si stabilisca un protocollo chiaro, tra distanziamento, verifica della temperatura e mascherine come per i ristoranti. Perché non si fanno controlli? Basterebbe qualcuno della polizia municipale, per esempio. Al mio matrimonio lo accetterei. Magari non in uniforme: l’effetto barzelletta anche no…».
«Ci sono tempi strettissimi, servono decisioni veloci e una riprogrammazione immediata delle date» conclude Ranieri, che non si dà pace per come questa filiera del made in Italy sia riconosciuta a malapena. «L’artigianato dei matrimoni è un valore italiano, che appartiene alla nostra cultura e si sviluppa sul nostro territorio. Il mondo ce lo riconosce e le ricadute economiche sono grandi. Salvaguardiamolo».
BENEDETTI ABITI
Per le sposine che non se li possono permettere le suore clarisse di Cascia adattano quelli usati.
di Petra Carsetti
Sold out, anche le clarisse di Cascia (Perugia) del convento Santa Rita, la patrona delle cause impossibili, hanno dovuto dire stop. La loro iniziativa caritatevole ha avuto un tale successo che – spiegano al convento – si sono dovute prendere una pausa di riflessione. Di che si tratta? Di un gesto romantico di carità. Suor Maria Laura raccoglie gli abiti da sposa usati, li mette a misura e li dona alle ragazze che vogliono sposarsi, ma che non hanno i soldi per l’abito del fatidico sì. Tutte le suore vi sono impegnate, ma non ce la fanno a smaltire l’arretrato e ad arginare le donazioni. Lunghissima la lista di future spose che hanno prenotato la prova degli abiti (si può fare scrivendo un’email a monastero@santaritadacascia.org). Chiedono solo un po’ di pazienza ma continueranno in questo lavoro. Ah, una cosa importante. Suor Maria Laura non chiede mai se la ragazza si sposerà o meno in chiesa, a lei basta vederla felice!