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La nuova mappa dell’impero Agnelli-Elkann

La nuova mappa dell’impero Agnelli-Elkann

Ancora l’auto, certo. Ma sempre più con interessi nelle tecnologie sanitarie, nel lusso, negli investimenti green e nella finanza. Panorama traccia la nuova mappa dell’impero degli Agnelli-Elkann, attraverso la holding Exor. Che, con alcune cessioni illustri nell’editoria, accelera nella «internazionalizzazione».


Partiamo da una contraddizione, che però è tale solo in apparenza. Se guardiamo le ultime operazioni di Exor – quelle ufficiali e quelle di cui si vocifera – balza all’occhio come prosegua un lento smottamento della cassaforte degli Agnelli dall’Italia. Se invece si osservano le diverse partecipazioni della holding guidata dal ceo John Elkann, ci si rende conto che a partire dalla Ferrari, per arrivare a Stellantis, Cnh industrial e Iveco, circa il 70 per cento degli attivi da 34 miliardi di euro, è legato a stretto filo con il Paese d’origine della famiglia.

Quello che sembra un paradosso ha però una spiegazione per nulla machiavellica. Da un lato c’è infatti la forza della storia e l’unicità di alcuni brand, Cavallino in testa, che da solo, nonostante i risultati non proprio esaltanti delle Rosse in F1 (Singapore a parte), rappresenta circa il 35 per cento (13,3 miliardi) del valore di Exor. Dall’altra emergono la strategie future del gruppo che ne spostano il baricentro dalla manifattura alla finanza e ancora dall’auto alla sanità, al lusso e alle tecnologie. Soprattutto all’estero. Le ultime acquisizioni dicono che la società di partecipazione che nel 2016 ha trasferito la sede legale e fiscale in Olanda e un anno fa ha lasciato Piazza Affari per la Borsa di Amsterdam ha investito 2,6 miliardi per il 15 per cento di Philips, che da leader dell’elettronica di consumo si è trasformato in pioniere delle tecnologie sanitarie. Mossa oculata, perché il colosso olandese (hanno in comune la sede legale ad Amsterdam) arriva da un grosso scandalo e secondo gli analisti il valore del titolo non può che risalire. Nel luglio del 2022, invece, per poco più di 800 milioni Exor si è assicurata il 10 per cento dell’Institut Mérieux, gruppo di ricerca su malattie infettive e tumori dell’omonima famiglia francese. Mentre ad aprile aveva messo una «fiche» da 67 milioni di euro per il 45 per cento della rete di cliniche italiane Lifenet.

D’altro canto, si succedono senza sosta le indiscrezioni sulla cessione degli asset italiani. Si parla (ma Exor ha smentito seccamente) della vendita prima di una quota di minoranza e poi di maggioranza della Juventus, che tanti problemi sta causando alla famiglia sia dal punto di vista finanziario (ricapitalizzazioni per 450 milioni di euro) che dell’immagine: dalle inchieste su stipendi «truccati» e plusvalenze fittizie fino all’addio del presidente Andrea Agnelli. Non è poi un mistero che Stellantis stia studiando il modo migliore per valorizzare al meglio Comau, campione della robotica e dell’automazione industriale che conta 3.500 lavoratori.

Tra le ipotesi, oltre alla strada maestra della quotazione, è contemplata la cessione, come conferma il grido d’allarme dei sindacati italiani che chiedono di applicare il «golden power» per tutelare un asset strategico per il Paese. Così come è nei fatti che il cuore della stessa italo-francese Stellantis batta più a Parigi che a Torino. «Da tempo la famiglia si è allontanata da automotive e manifattura per dedicarsi a finanza e sanità» riflette con Panorama Giorgio Airaudo, segretario della Cgil Piemonte che segue le vertenze dell’auto e le operazioni dell’ex Fiat. «È evidente che il problema dell’auto sia stato del tutto delegato all’ad Carlos Tavares e le decisioni che contano vengano prese in Francia, dove lo Stato ha una partecipazione importante in Peugeot. Lo dimostrano i numeri. In Italia vengono prodotte 450 mila auto all’anno rispetto a una capacità di 1,2 milioni di vetture. Da qui il continuo ricorso ad ammortizzatori sociali, pagati con risorse pubbliche, con il caso limite di Mirafiori, la cassa integrazione prosegue da 15 anni. Sono lontani i tempi quando l’Avvocato diceva: ciò che va bene alla Fiat va bene anche all’Italia».

E infatti, uscendo per un attimo dall’universo Exor, ma i soldi alla fine da lì arrivano, non è andata per niente bene né al nipote dell’Avvocato, Lapo Elkann, né ai dipendenti (licenziamento collettivo) e ai creditori italiani l’avventura di Italia Independent, il marchio di occhiali nato nel 2006 per rivoluzionare l’immagine del made in Italy nel mondo e che è stato venduto poche settimane fa per un milione di euro. Solo negli ultimi anni, il fratello di John ha versato nella casse della sua creatura due assegni da 25 e 12,8 milioni e nel 2022 ha chiuso un accordo per la ristrutturazione del debito che ripaga alcuni creditori con il 20 per cento e altri con il 10. Tutto questo succedeva mentre a fine 2020 Exor investiva 80 milioni di euro per portare a casa la maggioranza della griffe cinese Shang Xia e qualche mese dopo pagava circa mezzo miliardo a Christian Louboutin per una quota del 24 per cento dell’omonima maison francese famosa per le scarpe da donna dalla suola rossa.

Ma se si vuol capire davvero qual è il peso attuale degli Agnelli in Italia è dall’editoria che bisogna partire, anche se Gedi, la società che raggruppa testate come Repubblica, La Stampa, il Secolo XIX, con un fatturato vicino al mezzo miliardo di euro e bilancio a malapena in equilibrio, ha un peso marginale nell’economia del gruppo. I giornali però si pesano e non si contano e quindi la dismissione dei «locali» è da vedere come un segnale: dopo la cessione di sei testate storiche, tra queste anche il Messaggero Veneto e Il Piccolo di Trieste, alla Nord Est Multimedia di Enrico Marchi, quello che prima dell’ingresso di Exor era una potenza di fuoco sui territori è diventato un topolino che può contare solo sulla Provincia Pavese e La Sentinella del Canavese. Così come sono un segnale importante le indiscrezioni, confermate a Panorama da due diverse fonti, secondo le quali dopo la cessione dell’Espresso anche sulla stampa nazionale dei ragionamenti sono in corso. Ragionamenti che potrebbero portare alla cessione non solo della Repubblica, il quotidiano su cui più si rincorrono le voci, ma dell’intero gruppo Gedi. Vedremo.

Nel frattempo difficile non notare come lo stesso giornale fondato da Eugenio Scalfari stia sposando «senza se e senza ma» le battaglie green che hanno a Bruxelles – con il pacchetto Fit for 55 e le varie direttive su casa, natura, imballaggi – l’headquarter ambientalista. Nell’ultima lettera agli azionisti, nel capitolo dedicato a Exor Venture, la società che investe in start up, Elkann evidenziava come la holding abbia iniziato a «esplorare opportunità nel campo del climate-tech (le tecnologie per raggiungere emissioni zero, ndr)… Del resto, come sottolineato anche lo scorso anno, l’Esg non è solo importante come modo di operare, ma rappresenta anche un’interessante opportunità di investimento». Insomma, ambiente e sostenibilità a 360 gradi. Se l’obiettivo è decarbonizzare vanno in questa direzione l’investimento in Newcleo, la società che sta lavorando a un reattore nucleare con solo combustibile riciclato e in TagEnergy, azienda attiva nelle rinnovabili e nello stoccaggio energetico con un ricco portafoglio in Australia, Regno Unito e Portogallo. Mentre Lingotto Investment management (3 miliardi di asset in gestione) ha una partecipazione modesta (10 milioni), ma simbolica, su Tesla, e di recente oltre a investire su Neura Robotics (i robot cognitivi) ha puntato su Indigo, la società Usa che fa dell’agricoltura sostenibile, microbiologia naturale e tecnologie digitali il suo marchio di fabbrica. Tra gli oltre 90 investimenti in start up – per un totale di 600 milioni di dollari – di Exor Venture vanno segnalati quelli in Eoliann, che ha l’obiettivo di rendere la finanza più resiliente ai cambiamenti climatici, e Planckian, che lavora alla batteria quantistica ricaricabile all’istante. Sarebbe una rivoluzione per l’auto elettrica perché, inutile girarci intorno, anche per Exor l’elettrico è una «via d’uscita» cruciale per futuro.

Insomma, più che chiedersi quanto pesano gli Agnelli per l’Italia, la domanda da porsi è quanto interessa ancora agli Agnelli contare in Italia. E la risposta è, salvata la faccia e l’immagine, abbastanza poco. È evidente che per John Elkann sia infinitamente più «centrale» il 34,7 per cento (primo azionista, ma con il 20 per cento dei diritti di voto) dell’Economist rispetto a tutte le partecipazioni editoriali. Dalle colonne di uno dei più prestigiosi settimanali al mondo viene meglio dichiarare l’Italia del governo Draghi «Paese dell’anno», spingere la transizione green o pungolare Bruxelles sull’automotive. I numeri gli stanno dando ragione. Exor ha chiuso l’ultima semestrale con utili per 2,1 miliardi di euro in netta crescita rispetto ai 265 milioni del 2022, mentre il valore netto degli attivi (Nav) è balzato a quota 34,2 miliardi. In cassa ci sono ancora un paio di miliardi da investire. Dove? Secondo gli analisti i settori sono quelli: sanità, lusso e nuove tecnologie. E la strategia potrebbe ricalcare l’operazione Philips: scalata repentina in società sottostimate per accelerare il processo di ristrutturazione. Se funziona si può restare anche nel lungo termine. Perché alla fine quello che conta è irrobustire i già ricchi dividendi che arrivano alla Giovanni Agnelli Bv, primo socio di Exor con il 52 per cento, e vera cassaforte della dinastia torinese, visto che i soci possono essere solo i discendenti del senatore Giovanni Agnelli, non l’Avvocato ma il fondatore della Fiat. Gli Agnelli-Elkann hanno incassato 54 milioni di euro dal bilancio Exor 2021 e 55 dal 2022, si punta ovviamente a migliorare. Anche perché la famiglia è numerosa, litigiosa e assai pretenziosa.

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