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Il pilastro precario della previdenza

Il pilastro precario della previdenza

L’obiettivo di integrazione al reddito dei fondi pensionistici è sempre più incerto e le nuove generazioni rischiano, in futuro, di ricevere assegni insufficienti per vivere, una volta lasciato il lavoro. Che fare? Ci sono interventi possibili. Ma sono anche urgenti.


Dovevano essere il secondo pilastro della previdenza, il paracadute dei giovani per sottrarli a un destino di pensioni «povere», invece si stanno rilevando un flop. I fondi pensione sembrano aver fallito il loro obiettivo. Si lamenta che nel nostro Paese manchi una educazione finanziaria in grado di diffondere la conoscenza riguardo a questi strumenti di copertura per l’età post-lavoro, ma la causa della scarsa adesione di chi ha meno di 35 anni va cercata altrove. Basta una domanda: come può un giovane con occupazione precaria – o anche fissa ma con bassa retribuzione – pagare vitto e alloggio, programmare una famiglia e al tempo stesso versare soldi a un fondo pensione? Prima di occuparsi della vecchiaia futura, deve gestire il presente.

Con il sistema di calcolo contributivo introdotto nel 1996 dalla riforma Dini, l’ammontare della busta paga è una variabile che decide quale sarà l’assegno pensionistico. Basse retribuzioni o, peggio, saltuarie, significano pochi versamenti e un capitale previdenziale ridotto. Secondo la ricerca Millennial e GenZ Survey 2022 della multinazionale di consulenza Deloitte, solo il 42 per cento della cosiddetta Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2003) e il 44 per cento dei Millennial (nati tra il 1983 e il 1994) è in grado di pagare con tranquillità le spese del mese. Inoltre solo il 28 per cento dei primi e il 30 per cento dei secondi è ottimista sulle proprie prospettive pensionistiche.

La relazione annuale della Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, traccia uno scenario puntuale su questi strumenti di integrazione complementari che, a dicembre 2022, erano 332. In sintesi, crescono le adesioni ma sono di ultra-50enni, cioè di coloro che hanno maggiori disponibilità economiche ma sono anche avanti con l’età. E comunque anche l’aumento non risulta significativo: circa il 5 per cento. Il numero complessivo degli iscritti è di 9,2 milioni, pari al 36,2 per cento sul totale della forza lavoro. Soltanto un lavoratore su quattro versa a un fondo pensione. Ciò che spicca è la componente anagrafica. La maggior parte degli iscritti è vicina al ritiro dal lavoro: il 48,9 per cento ha un’età compresa tra 35 e 54 anni, il 32,3 per cento ha almeno 55 anni e solo il 18,8 per cento è sotto i 35 anni. I giovani quindi restano lontani da questo strumento e non solo perché non dispongono di entrate costanti e consistenti. La rendita integrativa a fine carriera non sempre risulta tale da rappresentare una soluzione aggiuntiva interessante alla previdenza obbligatoria.

I fondi pensione sin dalla loro nascita sono stati messi in competizione con il Tfr. Finché l’inflazione si è mantenuta bassa, il loro vantaggio era indubbio, ma ora che il costo della vita è salito non c’è partita. La rivalutazione del Trattamento di fine rapporto tiene conto di due fattori: una quota fissa, l’1,5 per cento e una quota variabile pari al 75 per cento dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo. Per i fondi pensione invece, il rendimento dipende molto dal tipo di comparto scelto dal risparmiatore. Nel 2022 le turbolenze dei mercati finanziari hanno inciso sui risultati di gestione delle forme complementari, tanto per le linee di investimento a maggiore contenuto azionario quanto per quelle obbligazionarie.

I comparti azionari hanno registrato perdite in media dell’11,7 per cento nei fondi negoziali, del 12,5 nei fondi aperti e del 13,2 nei Pip (i Piani individuali pensionistici). Per le linee bilanciate i rendimenti medi sono stati ugualmente negativi: 10,5 per cento nei fondi negoziali, 11,5 nei fondi aperti e 12,3 nei Pip. Segno meno anche per gli obbligazionari: i misti hanno perso il 10,3 per cento nei fondi negoziali, il 7,6 per cento nei fondi aperti; gli obbligazionari puri -3,5 per cento nei fondi negoziali e -10,9 per cento nei fondi aperti. Questa performance negativa pesa sui risultati di un arco temporale ampio, tipico di un risparmio previdenziale. In un orizzonte decennale, solo i rendimenti dei comparti azionari raggiungono valori interessanti, tra il 4,7 e il 4,9 per cento annuo, superiori alla rivalutazione netta del Tfr (2,4 per cento) e all’inflazione (1,7 per cento). Ma sono scelti da appena il 9,2 per cento degli iscritti. I comparti bilanciati che sono i preferiti (il 40 per cento degli iscritti) danno un rendimento più modesto, per i fondi negoziali, tra il 2,7 e il 2,9 per cento. Nei Pip il rendimento medio pareggia appena il tasso d’inflazione.

C’è poi un altro fattore che condiziona la diffusione della previdenza complementare ed è la conversione, spesso costosa, del capitale accumulato con i fondi, in una rendita. Gli esperti spiegano che il tasso di conversione applicato è condizionato dall’allungamento della vita sicché le assicurazioni devono pagare le rate per 20-40 anni. Ma la conseguenza è che molti risparmiatori scelgono di ritirare il capitale invece di optare per una rendita. La Covip, nella sua relazione, chiama in causa le compagnie: «Le condizioni di offerta proposte dalle imprese di assicurazione sul mercato delle rendite vitalizie risultano economicamente ancora poco convenienti rispetto alle aspettative di vita. Per fasce di pensionati in condizioni socio-economico più deboli, le rendite vitalizie sul mercato sono poco accessibili». Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza, torna però a puntare il dito su quello che considera il motivo principale della scarsa adesione alla previdenza complementare, ovvero le retribuzioni basse e il lavoro precario. «È questo il nodo da sciogliere. Fra 40-50 anni avremo una schiera di poveri, di persone che hanno eroso il patrimonio accumulato dai genitori e non ne hanno di proprio a compensare le scarse pensioni».

Quanto alla concorrenza del Tfr, per l’esperto «durerà poco, il tempo di far raffreddare l’inflazione». Ai giovani consiglia di orientarsi su un comparto più aggressivo. «Hanno davanti un lungo percorso e vale la pena di rischiare. Ma bisogna non lasciarsi impressionare dalle bufere dei mercati e guardare in prospettiva». Un cambio di marcia alla previdenza integrativa dovrebbe venire dal Piano giovani, a cui sta lavorando il governo per garantire un’adeguata copertura pensionistica proprio a coloro che hanno carriere discontinue e bassi redditi. La premier Giorgia Meloni ne ha parlato ai sindacati nell’incontro a fine maggio. L’obiettivo è evitare che nei prossimi decenni esploda una vera bomba sociale. Allo studio c’è quindi un pacchetto di incentivi e sconti fiscali e la possibilità di un riscatto particolarmente agevolato della laurea. Se ne dovrebbe discutere in occasione della manovra di bilancio del prossimo autunno. Per salvare le nuove generazioni da un futuro povero, è davvero l’ultima opportunità.

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