Home » Attualità » Economia » Il grande affare di Lula si chiama Petrobras

Il grande affare di Lula si chiama Petrobras

Il grande affare di Lula si chiama Petrobras

I legami del presidente brasiliano con il colosso statale del petrolio. Che ora, grazie al più alto appoggio politico, si prepara a trivellare in Amazzonia.


«Salveremo l’Amazzonia». Questo il mantra del presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva rilanciato dai giornali italiani fino a pochi mesi fa, quando infuriava la campagna elettorale in Brasile contro il rivale «ecocida» e di destra Jair Bolsonaro. Peccato che il presidente di sinistra, tornato al potere per la terza volta quest’anno dopo un soggiorno di 580 giorni in carcere per una condanna per corruzione e riciclaggio in terzo grado, per «salvarla» voglia far estrarre petrolio dalla foce del bacino del Rio delle Amazzoni dalla Petrobras, la compagnia energetica brasiliana – gigante dal fatturato annuo pari a 120 miliardi di euro – tornata saldamente sotto il suo controllo dopo la parentesi che ne ha risanato i conti disastrati con le presidenze degli ex presidenti Michel Temer e Bolsonaro.

L’idea folle non deve stupire se si considera che Lula durante le sue precedenti permanenze al vértice dello Stato aveva già commesso crimini ambientali passati sotto silenzio. Lo dimostrano i numeri (rivelati da Panorama n. 16 del 12 aprile scorso): nel suo primo mandato l’ex sindacalista ha disboscato l’Amazzonia tre volte di più rispetto a Bolsonaro. Ma, soprattutto, ha costruito il complesso idroelettrico di Belo Monte, un crimine ambientale con un impatto disastroso su flora, fauna e comunità indigene, motivo che portò alle dimissioni di Marina Silva 15 anni fa, allora come oggi ministro dell’Ambiente di Lula. Se adesso la storia dovesse ripetersi, il maggiore caso di greenwashing del Brasile non potrebbe essere più nascosto dai media, neanche da quelli che hanno esaltato Lula sinora sul fronte ambientale. Difficile spiegare se non con «ecologismo di facciata» i 35 milioni di euro spesi da Petrobras in 68 progetti socio-ambientali negli ultimi due anni quando poi, secondo il quotidiano Folha de São Paulo, con il suo progetto amazzonico Petrobras punta a estrarre nei prossimi anni nel cuore del polmone verde del pianeta qualcosa come 14 miliardi di barili di petrolio.

Del resto il legame di Lula con Petrobras ha una lunga storia e non è un segreto che la compagnia fu usata come cassa dal presidente e dai partiti della coalizione che lo appoggiavano in passato, a partire dal suo Partito dei lavoratori, il Pt, come evidenziato dallo scandalo passato alla storia come «Petrolão». In sintesi uno schema di tangenti miliardarie, ammesso dalla stessa Petrobras nell’aprile 2015, quando la compagnia pubblicò «bilanci certificati» che mostravano quasi 2 miliardi di euro di tangenti e una cifra pari a 16 miliardi di euro di perdite dovute a concussione e fatture «gonfiate», stima definita all’epoca «prudenziale» dalla stessa impresa che oggi vuole perforare le foci del Rio delle Amazzoni. Vale la pena ricordare che il nuovo presidente di Petrobras è Jean Paul Prates, un tesserato del Pt già senatore per Rio Grande do Norte, che ha cambiato la politica dei prezzi adottata nel 2016 dall’allora presidente Temer per rimettere in sesto i bilanci della compagnia. La conseguenza è che «la nuova politica dei prezzi è confusa e opaca, consente al governo di riadattarli a suo piacimento e abbandona le linee guida che hanno salvato Petrobras dalla rovina» ha scritto il quotidiano Estado de São Paulo.

Non stupisce dunque che il «petista» Prates adesso voglia trivellare l’Amazzonia, nonostante una dura analisi di impatto negativo dell’Ibama, l’Istituto brasiliano delle risorse naturali che fa capo al ministero dell’Ambiente diretto da Marina Silva, che ha detto «no» al progetto di perforazione in un’area di 350 mila chilometri quadrati più grande dell’Italia, tra la baia di Marajó, nel Pará, e il confine con la Guyana francese. Petrobras vuole sfruttare quest’area vista anche la diminuzione delle riserve nazionali nella regione del Presal, tra gli Stati di Santa Catarina ed Espírito Santo. Già in passato, soprattutto negli anni Settanta, in Amazzonia Petrobras aveva aperto 95 pozzi petroliferi con scarsi risultati. La ricerca era stata sospesa nel 2011 a causa delle forti correnti. Nel 2018 erano state respinte 5 richieste di perforazione in Amazzonia da parte della francese Total Energies, ma da quando sono stati scoperti giganteschi giacimenti nelle vicine Guyana e Suriname, la petrolifera brasiliana ha deciso di investire nuovamente nella zona equatoriale, che si estende per 2.200 chilometri dagli Stati di Rio Grande do Norte all’Amapá.

Recenti studi stimano i depositi del bacino equatoriale tra i 20 e i 30 miliardi di barili, e analoga stima è stata fatta per l’estuario del Rio delle Amazzoni, dove è prevista la perforazione di tre pozzi, oltre ad altri sei in tutta l’area, per un investimento iniziale complessivo di 1,2 miliardi di euro e altri 1,8 miliardi di euro a stretto giro di posta per sfruttare una risorsa che richiederà un decennio per dare i primi frutti, ammesso che i costi di estrazione siano poi inferiori a quelli di mercato, in questo che viene venduto dalla Petrobras come la regione del «Nuovo Presal». L’Ibama ha detto no al progetto perché provocherebbe un insostenibile traffico di navi e aerei, e gli interventi in caso di fuoriuscita di petrolio sarebbero impossibili a causa della distanza dalla terraferma. I pozzi in questione si trovano a 170 chilometri dalla costa dell’Amapá. Lula all’ultimo «G7» di Hiroshima ha addirittura mentito alla comunità internazionale, secondo l’agenzia di fact checking «Aos Fatos». «Se il petrolio viene estratto alla foce dell’Amazzonia, che dista 530 chilometri, in alto mare, mi sembra difficile che sia un problema per l’Amazzonia», ha dichiarato il presidente «ambientalista». In realtà il pozzo Fza-m-59 è molto più vicino alla foresta pluviale di quanto ha affermato il presidente.

Secondo il rapporto dell’Ibama, l’attività di perforazione è infatti localizzata a circa 170 chilometri dalla costa di Oiapoque, comune nell’estremo nord del Brasile e confinante con la Guyana francese e il Parco Nazionale di Cabo Orange, un’unità di conservazione di protezione integrale e, soprattutto, una zona con un «bioma» marino costiero ed amazzonico unico. E a rischio con le ricerche petrolifero di Petrobras. Lo studio di Ibama denuncia che le trivellazioni metterebbero a rischio decine di specie, alcune già minacciate, come i delfini grigi e rosa. «Siamo contro lo sfruttamento del petrolio in quest’area, così come lo sono le organizzazioni indigene, perché rappresenta una seria minaccia per l’ambiente e per le persone che vivono nella regione e dipendono dalla foresta per sopravvivere», spiega a Panorama Alice Farano di Survival International Italia. Il «no» dell’Istituto ambientale brasiliano non ha fermato però Petrobras, che ha presentato ricorso contro la decisione, sostenendo che la possibilità di fuoriuscite di petrolio è remota «e che il suo sistema di risposta è il migliore del Paese», con 12 navi e tre elicotteri. Il ministero delle miniere e dell’Energia si è subito schierato con Petrobras. Alla Camera, il responsabile dell’Ambiente Marina Silva ha detto che questi cambiamenti «chiuderanno le porte del mondo al Brasile» e che «la credibilità di Lula non basterà a preservare la buona immagine del Paese», aggiungendo che «non è questa la struttura di governo che ha vinto le elezioni. Una plateale sconfessione del suo presidente.

Secondo gran parte degli analisti brasiliani, un’eventuale dimissione di Silva e l’avanzata delle politiche anti-ambientali del governo Lula potrebbero avere un effetto assai negativo per il gigante sudamericano per almeno due motivi. In primo luogo, metterebbe a repentaglio la firma dell’accordo Mercosur con l’Unione europea, per la quale Bruxelles aveva già chiesto clausole ambientali ancora più severe. Ma, soprattutto, potrebbe paralizzare il finanziamento del Fondo Amazzonia, un’iniziativa tedesco-norvegese per proteggere la foresta e promuovere lo sviluppo sostenibile che aveva raccolto circa 198 milioni di dollari tra il 2009 e il 2018. La stessa Norvegia ha già informato il governo brasiliano che il suo pagamento è subordinato ai prossimi dati sulla deforestazione e anche gli Stati Uniti potrebbero cambiare idea dopo che il presidente Joe Biden aveva annunciato che presenterà al Congresso una proposta di finanziamento di 500 milioni di dollari. Chissà se questo basterà a contenere Lula e i suoi folli progetti con Petrobras.

© Riproduzione Riservata