Tra le aspettative di chi si è ritirato dal lavoro, le richieste dei sindacati, gli impegni del governo e la mancata riforma da parte dell’Inps, il rebus dei trattamenti previdenziali è sempre più difficile da sciogliere. Soprattutto, dove prendere i soldi che servono? L’ipotesi (ancora una volta) è tagliare le rendite medio-alte…
Il cantiere delle pensioni è sempre aperto ma i lavori sono fermi: mancano i soldi. E non vedere costruire l’edificio della grande riforma previdenziale alimenta un crescente nervosismo all’interno della maggioranza e tra governo e sindacati. I partiti che hanno vinto le elezioni avevano promesso pensioni minime più alte, uscita dal lavoro in anticipo e altri premi e cotillon. Ma con i buchi lasciati dal Superbonus nei conti dello Stato e gli impegni presi per il taglio del cuneo fiscale e delle tasse, lo spazio di manovra è piccolo: probabilmente si potrà far poco e quel poco rischia di far arrabbiare i pensionati e di scontrarsi con le cause che iniziano a far capolino nei tribunali.
Tra i partiti che si sono più sbilanciati sul fronte previdenziale c’è la Lega: vorrebbe che l’Inps guidato dalla commissaria Micaela Gelera consentisse ad andare in pensione chi ha messo da parte 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica. La squadra di Matteo Salvini sostiene che questa riforma, applicata solo per un anno, il 2024, avrebbe un costo tutto sommato accettabile, perché il calcolo dell’assegno sarebbe effettuato interamente con il sistema contributivo, cioè basato sui contributi versati, meno generoso di quello misto contributivo-retributivo. Ma comunque con questa proposta dalle casse dell’Inps dovrebbero uscire un miliardo di euro in più nel 2024 e 2,2 miliardi nel 2025. Forza Italia cavalca intanto il cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, l’innalzamento a mille euro delle pensioni minime entro fine legislatura. Un obiettivo condiviso dalla premier Giorgia Meloni, e si ipotizza che con la prossima manovra le minime potrebbero salire a 670 euro per poi subire ulteriori aumenti nei prossimi anni.
A queste pressioni che arrivano dalla maggioranza si aggiungono le richieste dei sindacati. «C’è l’emergenza dei lavori pagati poco e discontinui che si tradurrà nei prossimi anni in una gravissima emergenza previdenziale» premette Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil, che riassume la piattaforma unitaria lanciata dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri. «È fondamentale offrire una prospettiva previdenziale attraverso l’introduzione di una pensione contributiva di garanzia. Questo è un punto che per noi è molto importante perché con l’attuale mercato del lavoro precario e discontinuo stiamo rischiando di creare un esercito di pensionati poveri. Inoltre chiediamo che venga superata la legge Fornero consentendo ai lavoratori di andare in pensione a 62 anni oppure con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. Non è quota 103, che prevede invece entrambi i requisiti. Poi proponiamo di riconoscere il lavoro di cura, di allargare la platea di lavori usuranti e gravosi e di correggere Opzione donna, riportandola ai criteri previgenti perché ora è penalizzante e discriminante». Opzione donna è una pensione anticipata a 60 anni (o fino a 58 per chi ha figli) che può essere richiesta dalle lavoratrici con almeno 35 anni di contributi, ma viene calcolata con il sistema contributivo.
Viste le scarse risorse a disposizione, è difficile che il governo possa accettare queste richieste. È probabile che si limiti a confermare per un altro anno l’attuale quota 103 (cioè andare in pensione con almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi), un’estensione dell’Ape Sociale (l’indennità riconosciuta a disoccupati di lungo corso, caregiver, invalidi e addetti ai lavori gravosi) con l’allargamento della platea di beneficiari e qualche ritocco a Opzione donna. Non è molto. Ma anche se limitata, questa mini-riforma costerà un paio di miliardi di euro nel 2024.
Dove prendere i denari? Tagliando la spesa pubblica oppure limando ancora una volta la rivalutazione delle pensioni più alte. Gli assegni dei pensionati infatti vengono ogni anno aumentati per tenere il passo con l’inflazione. Ma solo quelli più bassi sono rivalutati al 100 per cento del carovita, i più elevati solo in parte. E l’ultima modifica al meccanismo di perequazione introdotta dall’attuale governo è già stata molto penalizzante per le pensioni medio-alte. Nonostante ciò, secondo alcune indiscrezioni il governo avrebbe richiesto all’Inps di condurre delle simulazioni per valutare quali risparmi si potrebbero ottenere attraverso un’ulteriore riduzione dell’indicizzazione, dopo quella introdotta per il biennio 2023-2024. «Siamo assolutamente contrari ad un nuovo blocco della rivalutazione delle pensioni» replica Tania Scacchetti, segretaria nazionale Spi Cgil.
«L’ultimo taglio dell’adeguamento all’inflazione, varato senza neppure consultare il sindacato, renderà 3,5 miliardi nel 2023 e 6 miliardi circa nel 2024, soldi sottratti dalle tasche dei pensionati. E non si tratta di assegni ricchi: si parla di pensioni da 1.600 euro netti al mese in su». La platea interessata è composta da circa quattro milioni di pensionati che percepiscono un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo Inps (pari a 2.101,52 euro mensili lordi). Lo Spi insieme al patronato Inca sta predisponendo una serie di ricorsi pilota contro questo meccanismo particolarmente penalizzante e iniquo. Ma è stata la Uil Pensionati a muoversi per prima avviando nelle scorse settimane una serie di cause per conto di un gruppo di iscritti, depositando le relative diffide all’Inps. In settembre scatterà una seconda fase, con l’invio delle cause ai diversi fori competenti. L’obiettivo, spiegano alla Uil-pensionati, è quello di ottenere la pronuncia della Corte Costituzionale sulla illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 309, della legge 29 dicembre 2022 n 197, cioè della legge di bilancio 2023 che ha previsto il taglio.
Nell’istanza-diffida si legge che «il criterio e l’entità (inadeguata e insufficiente) dell’aumento per la perequazione automatica della pensione per l’anno 2023 calcolato ed erogato dall’Istituto è manifestamente in contrasto con i principi fondamentali», richiamati anche dalla sentenza della Corte costituzionale del 2020, per la quale «la perequazione automatica delle pensioni deve essere volta a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici e a salvaguardare il valore reale al cospetto della pressione inflazionistica» e «l’eventuale introduzione, da parte del legislatore, di meccanismi limitativi della perequazione pensionistica, incontra il limite, inderogabile e invalicabile, dell’osservanza dei principi di eguaglianza sostanziale… ed è soggetta a rigorosi vincoli quantitativi, temporali, di proporzionalità e di ragionevolezza». Secondo la Uilp la manovra decisa dal governo Meloni non è ragionevole, trascina i suoi effetti di perdita di potere d’acquisto nel tempo rendendoli definitivi e si aggiunge a una serie di analoghi interventi a sfavore dei pensionati introdotti ripetutamente negli anni passati. La diffida si conclude con la richiesta di ottenere la piena rivalutazione del trattamento pensionistico, intimando l’Inps a provvedere «al più favorevole ricalcolo dell’importo rivalutato di pensione» nonché alla liquidazione e al pagamento di tutte le maggiori somme «indebitamente trattenute» con decorrenza da gennaio 2023».
Carmelo Barbagallo, segretario generale della Uilp, sostiene che «gli effetti di un nuovo taglio sulla rivalutazione sarebbero devastanti. Si tratta di affamare la classe media, in particolare quattro milioni di pensionate e pensionati, già messi in ginocchio dal mancato adeguamento dell’anno scorso». Barbagallo dice che vuol far perdere consenso a chi impoverisce i pensionati e si propone di scrivere ai deputati e senatori di Camera, Senato ed Europarlamento per difendere la categoria dei pensionati. «Pagano sempre loro, quelli che hanno versato le tasse e i contributi fino all’ultimo centesimo e come ringraziamento cosa ottengono? Uno Stato che non rispetta i patti».
Sono due i meccanismi che colpiscono i pensionati più «ricchi». Per il biennio 2023-2024 la Legge di Bilancio approvata nel dicembre scorso prevede un adeguamento all’inflazione pari all’80 per cento per le pensioni da 4 volte a 5 volte il minimo (da 2.102 a 2.627 euro lordi); al 55 per cento per gli assegni da 2.627 euro a 3.152 euro; al 50 per cento tra quest’ultimo importo e 4.203 euro; al 40 per cento fino a 5.254 e al 35 per cento per gli importi superiori. Ma accanto al taglio della rivalutazione si aggiunge un secondo danno: la perequazione viene calcolata sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni, un sistema più favorevole che aveva re-introdotto il governo Draghi. Con il risultato che adesso un pensionato con una rendita tra 3.152 euro e 4.203 euro lordi si vedrà rivalutata l’intera pensione solo della metà dell’inflazione, ora molto più elevata che negli anni passati. È questa la difesa della classe media?