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Le false verità sugli stipendi degli italiani

Le false verità sugli stipendi degli italiani

Le retribuzioni sono troppo basse. È la convinzione più diffusa. Ma facendo i conti e considerando le competenze al di fuori delle statistiche e, soprattutto, la quota «in nero», cambia la prospettiva. anche per circa i 5 milioni di lavoratori poveri…


Che le retribuzioni degli italiani siano inferiori di quelle medie europee è notohe le retribuzioni degli italiani siano inferiori di quelle medie europee è noto. Come non è una novità che esse siano ferme da anni. E sono altrettanto conosciute le spiegazioni che giustificherebbero il basso livello dei nostri salari: la produttività che non cresce, la peculiarità di un sistema economico formato in prevalenza da aziende medie e piccole, il freno alla spesa pubblica, l’eccessiva differenza tra costo del lavoro e stipendio netto, cioè il famoso «cuneo fiscale». Ma a questa verità, tagliata un po’ con l’accetta, se ne contrappone un’altra che tende a ridimensionare l’allarme su retribuzioni e sull’aumento delle diseguaglianze, a suggerire di prendere con le pinze i confronti internazionali. E anche a valutare con maggiore cautela la proposta di introdurre anche in Italia un salario minimo.

Il salario minimo serve davvero?

Il Movimento 5 stelle, a firma Giuseppe Conte, ha presentato una proposta che prevede un salario minimo a 9 euro lordi all’ora, pari a circa 7 euro netti. Il Pd punta invece su 9,5 euro lordi all’ora per i lavori non coperti dai contratti nazionali mentre Nicola Fratoianni di Sinistra italiana alzano l’asticella a 10 euro lordi. Il governo invece sostiene che la via giusta per alzare le buste paga è tagliare il cuneo fiscale. Chi ha ragione? Intanto la platea che sarebbe interessata da questo provvedimento è limitata. Secondo i dati pubblicati da Adapt, l’associazione di studi sul lavoro fondata nel 2000 da Marco Biagi, sarebbero 290 mila i lavoratori a contratto che ricevono un trattamento salariare inferiore a 9 euro lordi. Si tratta delle persone impiegate nei multiservizi, nella vigilanza privata, nell’artigianato, nella cooperazione e nel commercio. «A questi sono da aggiungersi quote rilevanti, ma non facilmente stimabili, di lavoratori domestici (685 mila complessivi per Istat, molti di più per le associazioni del settore) e addetti alla agricoltura (950 mila complessivi)» scrivono i ricercatori di Adapt. «Sono effettivamente queste due le categorie di lavoratori nel privato potenzialmente più interessate da una norma sul salario minimo, che però proprio in questi comparti potrebbe determinare una sgradevole effetto non voluto: incoraggiare una maggiore sommersione, essendo ambiti ove il costo del lavoro è rilevante e il controllo più difficile. Certamente anche i lavoratori operanti “in nero” sarebbero assai interessati da una norma di questo genere, ma è di tutta evidenza che la semplice approvazione della legge non convincerebbe chi non già non se ne curava a cambiare atteggiamento». Comunque, in base a questi dati il salario minimo garantito avrebbe un impatto su meno del 2 per cento dei lavoratori dipendenti italiani e sul 10 per cento considerando anche il lavoro domestico e l’agricoltura. Inoltre uno studio della Commissione europea ammette che in 9 dei 21 Paesi dove è stato introdotto un meccanismo di legge, da ultimo la Germania, «il salario minimo legale non ha tutelato i lavoratori dipendenti dal salario minimo dal rischio di povertà». E poi il presupposto di partenza, ovvero che ci siano dai 3,5 fino ai 5 milioni di lavoratori poveri, forse non è proprio corretto, visto che le statistiche non tengono conto delle integrazioni in nero percepite da milioni di persone. Come affrema Claudio Negro, ex sindacalista e collaboratore della Fondazione Anna Kuliscioff e di Itinerari previdenziali, «meglio ampliare il numero di categorie a cui viene applicato un contratto di lavoro nazionale, stabilendo dei salari minimi diversi per le singole categorie». Altrimenti il rischio è che un salario minimo nazionale spinga verso il basso anche le retribuzioni previste dai contratti.

Perché la «retribuzione media» è poco realistica

In un articolo pubblicato il 13 giugno sul bollettino di Adapt, Michele Tiraboschi, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico della stessa Adapt, affronta il tema dell’affidabilità dei dati sugli stipendi insieme al ricercatore Francesco Lombardo: «La questione salariale è al centro del dibattito pubblico da oltre un decennio» scrivono i due autori. «Poco, tuttavia, si sa delle retribuzioni reali degli italiani. L’Istat offre dati relativi alla retribuzione lorda teorica che un lavoratore percepisce. Sono cioè esclusi i premi di produzione, gli importi per ferie e festività non godute, gli arretrati dovuti per legge o per contratto e le voci retributive collegate alla effettiva prestazione lavorativa. In altri casi il riferimento è alla retribuzione lorda effettiva, calcolata dall’Inps, come rapporto tra il monte retributivo dei lavoratori con almeno una giornata retribuita nell’anno e il loro numero. L’Istat ha così registrato, per il 2021, una retribuzione lorda teorica su un valore medio prossimo a 20 mila euro. Sempre nello stesso anno l’Inps ha invece registrato mediamente una retribuzione lorda effettiva di 21.868 euro per i lavoratori dipendenti del settore privato, esclusi operai agricoli e domestici».

Il problema è che questi valori sono calcolati in base alle giornate lavorate. «E se ci sono tanti lavoratori part time» spiega Tiraboschi a Panorama, «con contratti a termine, stagionali, da stagisti, è evidente che le loro retribuzioni abbattono la media. Tanto è vero che le giornate medie retribuite secondo i dati Inps sono solo 235, inferiori di almeno un mese rispetto a chi ha un contratto a tempo pieno». Difficile poi qui capire quante giornate “in nero” vada a integrare le giornate di lavoro effettive. «Quindi andrebbe fatta un’analisi un po’ più accurata distinguendo chi ha un contratto a tempo indeterminato da chi non ce l’ha».

Un lavoro nero da 62 miliardi Orientarsi nella giungla delle retribuzioni non è facile. I salari medi più elevati, previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria, sono nell’industria in senso stretto (27.805 euro), nei servizi di informazione e comunicazione (25.646 euro) e nei servizi professionali (23.001 euro). Al contrario, la retribuzione teorica annuale è considerevolmente più bassa nei servizi di alloggio e ristorazione (7.618 euro), in quelli di supporto alle imprese (9.395 euro) e in quelli di intrattenimento (9.611 euro), settori che occupano insieme oltre un quarto dei lavoratori dipendenti e dove il pagamento in nero di tutta o parte della retribuzione è molto diffuso. La modalità più frequente del nero parziale è quella di assumere un dipendente con un contratto part-time ma farlo lavorare a tempo pieno, pagando cash la differenza. Oppure versare gli straordinari fuori busta. O ancora inventarsi delle false trasferte: datore di lavoro e dipendente si accordano perché una parte dello stipendio sia erogata sotto forma di trasferte mai avvenute. Nel 2020 il lavoro irregolare ammontava a 62,4 miliardi di euro secondo le stime dell’Istat, a cui corrispondono contributi non pagati per circa 12,7 miliardi. In altre parole, alcuni milioni di lavoratori si dividono questa enorme torta di pagamenti cash. Se per assurdo questi soldi finissero tutti nelle tasche dei 3,5 milioni di persone che lavorano completamente in nero, ciascuno di loro percepirebbe un salario di quasi 18 mila euro all’anno. Ovviamente netti. Parliamo delle colf, delle badanti, dei lavoratori agricoli, dei camerieri, di chi è impegnato nel mondo dei concerti e delle costruzioni. Un universo ampio e avvolto nelle nebbie dell’evasione fiscale e contributiva. Secondo la Cgia di Mestre «la maggioranza di chi lavora irregolarmente è costituita, in particolar modo, da persone molto “intraprendenti”, che ogni giorno si recano nelle abitazioni degli italiani a fare piccoli lavori di riparazione, di manutenzione (del verde, elettrica, idraulica, fabbrile, edile) o nel prestare servizi alla persona (autisti, badanti, acconciatori, estetiste, massaggiatori, e così via)».

Cervelli in fuga

Un altro tema che spesso emerge nel dibattito politico è quello dell’aumento delle diseguaglianze di reddito: chi sta in basso nella piramide dei salari viene pagato sempre di meno e chi sta sopra sempre di più. Ma questo è vero negli Stati Uniti, non in Italia. Se restiamo nel mondo delle aziende, infatti, la differenza tra salari alti e bassi non è affatto elevata, anzi è tra le più contenute in Europa. Lo spiega bene Claudio Negro: «È vero che le retribuzioni medie corrisposte dalle imprese ai lavoratori italiani sono inferiori rispetto a quelle di altri Paesi, ma andando un po’ più a fondo scopriamo che le retribuzioni “basse” sono più alte della media europea, ma quelle “alte” sono più basse». A fine 2022, spiega Negro, nell’area Euro la differenza tra i salari più bassi (cioè quelli pari alla metà del salario mediano) e quelli più alti (per convenzione pari al 167 per cento di quello mediano) era pari a 27 mila euro. In Italia questo divario si riduce ad appena 19.800 euro, inferiore perfino a quello registrato in Spagna, di 21.250 euro. «Bisognerebbe pagare di più quadri intermedi, informatici, tecnici e anche quegli operai specializzati, come i saldatori, che ormai sono introvabili. Quando si parla di fuga dei cervelli, in realtà ci si riferisce anche a questa platea di lavoratori che all’estero è trattata meglio». Così, tra miti sul salario minimo, sottostime delle retribuzioni medie e pregiudizi sulle diseguaglianze, il dibattito sugli stipendi degli italiani continua ad essere viziato da ideologia e mancanza di dati affidabili. Forse è venuto il momento di fare chiarezza.

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