Il compenso multimilionario di Andrea Orcel nel gruppo UniCredit ha riacceso le polemiche sugli emolumenti d’oro dei manager. Un tema che vede i fondi schierati sempre più spesso contro i vertici delle società, anche se restano in minoranza.
E’ giusto che il top manager di una banca guadagni in 12 mesi quanto ci impiegherebbe in ben 214 anni un lavoratore medio, se vivesse tanto a lungo? Andrea Orcel, il Ronaldo dei banchieri, ha strappato all’Unicredit un compenso annuo di 7,5 milioni di euro. Mentre, secondo le ultime rilevazioni di Odm consulting, società di Gi Group, nel 2020 la retribuzione annua lorda dei dipendenti italiani è stata di 35.362 euro: in dettaglio, 27.854 euro per gli operai, 33.443 per gli impiegati e 134.984 per i dirigenti. Numeri che, come sottolinea Miriam Quarti della Odm consulting, confermano «un congelamento dei valori retributivi medi per tutti i livelli di inquadramento». Siamo ancora nell’emergenza per la pandemia, intere categorie piangono miseria, un milione di italiani hanno perso il lavoro o sono finiti in una cassa integrazione di cui non si vede la fine, e c’è chi lassù, nelle torri d’avorio dei consigli di amministrazione, potrebbe comprarsi con il suo stipendio tre Ferrari al mese.
È comprensibile che emolumenti come quello di Orcel provochino polemiche e indignazione. Il suo superstipendio è nettamente più alto anche della media dei compensi degli amministratori delegati delle società quotate a Piazza Affari, che si aggira sugli 850 mila euro annui. E svetta perfino tra i banchieri europei: gli si avvicinano solo Christian Sewing della Deutsche Bank (7,4 milioni) e Ana Botìn del Santander (6,9 milioni). Anche gli investitori istituzionali non hanno digerito bene la retribuzione attribuita a Orcel e nell’assemblea degli azionisti del 15 aprile il 45 per cento dei soci presenti ha votato contro. Una percentuale molto elevata.
Ma attenzione, più che l’ammontare del compenso ha pesato la sua struttura: cioè che la parte variabile, 5 milioni (il doppio rispetto alla fissa), non sia legata nel primo anno a obiettivi di performance. E comunque la maggioranza degli azionisti dell’Unicredit ha accettato di sborsare una montagna di soldi per assumere un fuoriclasse che dovrà tirar fuori la banca dalle secche dove il precedente boss Jean Pierre Mustier l’ha fatta finire. Insomma, è facile scandalizzarsi davanti agli stipendi d’oro delle grandi aziende. Ma in realtà il tema delle retribuzioni dei top manager è complesso ed è da tempo al centro dell’attenzione degli investitori istituzionali, visto che in gioco ci sono i soldi dei loro clienti.
È dal 2011 che tutte le società quotate sono obbligate a illustrare le politiche di remunerazione all’assemblea dei soci, che ha in seguito conquistato il potere di approvarle o meno. Ormai le aziende mettono a punto rapporti da decine di pagine per spiegare come e quanto pagano i loro top manager, dopo che il consiglio di amministrazione ha definito emolumenti e obiettivi da raggiungere con il supporto di un comitato per la remunerazione e sentito il collegio sindacale. Scelte che servono a motivare la squadra e a non farsi rubare i migliori talenti, ma che però si prestano anche ad abusi e non sempre sono condivise dai fondi. Uno studio condotto dalla Consob, confermato anche da una recente analisi di Morrow Sodali, che fornisce consulenza strategica alle società quotate, mostra che la quota di voti contrari alle politiche retributive è passata dal 5 per cento del capitale presente nelle assemblee del 2012 al 9 per cento del 2020. E che circa un investitore istituzionale su tre si è opposto.
Da un’indagine sulle votazioni del 2020 nelle principali aziende quotate, in diverse assemblee il dissenso ha superato il 20 per cento, come per esempio nel caso di Bpm (dove l’amministratore delegato Giuseppe Castagna ha ricevuto un compenso di 1,49 milioni, in calo rispetto ai circa 1,7 milioni di un anno prima), Generali (con il numero uno Philippe Donnet pagato più di 3 milioni di euro), Unipol (con l’a.d. Carlo Cimbri accreditato di una paga da 5,6 milioni) e Azimut, dove addirittura i «no» sono arrivati al 57,6 per cento, provocando la bocciatura della proposta che però non riguardava strettamente le retribuzioni. «Nel 2020 ha inciso la pandemia e in molti hanno colto l’occasione per votare contro aumenti di stipendi non giustificabili con la situazione dell’Italia» sostiene un investitore che preferisce l’anonimato, molto attento alle dinamiche assembleari.
«I voti contrari riguardano anche i bonus discrezionali cioè non agganciati a risultati come nel caso di Unicredit. Oppure i fondi dicono no ad aumenti dei compensi dei top manager quando le aziende hanno ricevuto aiuti di Stato, hanno licenziato, non hanno pagato il dividendo. In linea di massima i voti contrari non superano il 50 per cento e hanno un impatto reputazionale: spingono cioè le società a introdurre dei cambiamenti in vista dell’esercizio successivo. Nella norma noi di solito vediamo un miglioramento in linea con le richieste degli investitori». Viste le difficoltà del Paese, lo scorso anno molti vertici delle società quotate si sono ridotti i compensi. Da un’indagine condotta dal quotidiano finanziario MF risulta che complessivamente le retribuzioni del top management delle prime 40 aziende presenti in Borsa sono diminuite lo scorso anno del 19,5 per cento. Per esempio, l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi ha tagliato i propri compensi del 6 per cento a 5,2 milioni di euro, e quello di Intesa Sanpaolo Carlo Messina ha rinunciato al 27 per cento scendendo a 3,2 milioni.
Ma ci sono anche le eccezioni: al Credito Valtellinese, sotto attacco del Crédit Agricole, l’amministratore delegato Luigi Lovaglio si è fatto riconoscere un superbonus che ha portato la sua retribuzione totale a oltre 3 milioni di euro. Cifre notevoli che però impallidiscono rispetto ai compensi percepiti dai manager americani: As You Sow, un’organizzazione non profit statunitense che difende i diritti degli azionisti, mette in fila ogni anno gli amministratori delegati che sarebbero pagati troppo rispetto ai risultati ottenuti.
In testa c’è il numero uno di Alphabet-Google Sundar Pichai che ha intascato nel 2020 oltre 280 milioni di dollari. Cioè mille volte la paga media di un lavoratore della sua azienda. Orcel al confronto è un dilettante. n
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