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È emergenza rifiuti elettronici

È emergenza rifiuti elettronici

L’enorme massa di scarti tecnologici spesso viene smaltita illegalmente. Disperdendo materiali tossici nell’ambiente e nei mari. E facendo la fortuna di trafficanti senza scrupoli.


Piegati su un fuoco fumante, alla ricerca di circuiti e fili da bruciare. I «burner boys», con loro anche donne e bambini, smontano i rifiuti elettronici per ricavarne ogni piccola parte rivendibile. Spesso senza conoscere il rischio per la salute di certi materiali pericolosi. Agbogbloshie, a pochi chilometri da Accra, la capitale del Ghana, in Africa, è il cuore di questo sistema. Al centro di una delle questioni più controverse relative allo smaltimento di questi rifiuti dove si stima lavorino circa 10.000 persone. Luogo di sfruttamento e illegalità in cui finisce buona parte del cosiddetto «e-waste» del mondo. E dove il veleno è ovunque: nell’aria, nel suolo, nell’acqua e nel cibo.

Secondo gli ultimi dati del Global E-Waste Monitor 2020 delle Nazioni Unite, nel 2019 è stato generato un record di 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici in tutto il mondo, con un aumento del 21% in soli cinque anni. Per rendere bene l’idea della rilevanza del problema, il rapporto paragona il peso dei rifiuti elettronici del 2019 al peso di tutti gli adulti in Europa. O per fare un altro esempio, a 350 navi da crociera. Il maggior volume è stato generato dall’Asia, seguito dalle Americhe e dall’Europa al terzo posto con 12 milioni di tonnellate. Secondo le Nazioni Unite, nel 2021 ogni persona sul pianeta produrrà in media 7,6 chili di rifiuti elettronici – televisori, computer, telefoni, frigoriferi – e si prevede che raggiungeranno i 74 milioni di tonnellate entro il 2030.

Ciò rende i Raee, ovvero i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, il flusso di scarti domestici in più rapida crescita al mondo, alimentato principalmente da tassi di consumo più elevati, cicli di vita brevi e poche opzioni per la riparazione. Le aziende pianificano intenzionalmente l’obsolescenza dei loro prodotti, progettandoli per non essere destinati a durare e aggiornando il design o il software, in modo che diventi più facile acquistarne uno nuovo piuttosto che ripararne uno vecchio. Un’evoluzione costante perché oggi ci sono anche smartwatch, lettori di ebook, ebike, monopattini elettrici, sigarette elettroniche, droni. E con il decollo dell’«Internet of things» e delle energie rinnovabili, ci saranno altre apparecchiature che al termine della loro vita diventeranno dei Raee.

Ma il modo in cui produciamo, consumiamo e smaltiamo questi rifiuti è insostenibile. Quando non trattati in modo corretto, vengono dismessi nelle discariche disperdendo sostanze pericolose e tossiche come il mercurio, i ritardanti di fiamma bromurati e i clorofluorocarburi, o idroclorofluorocarburi, cancerogeni che danneggiano gravemente ambiente e salute dei lavoratori. Secondo un nuovo rapporto Onu, ben 12,9 milioni di donne lavorano nel settore dei rifiuti informali, esposte alla loro tossicità. E oltre 18 milioni di bambini e adolescenti, alcuni di appena cinque anni, sono impegnati nel settore perché le loro piccole mani sono più abili di quelle degli adulti. La conseguenza è che un bambino che mangia un uovo di gallina da Agbogbloshie assorbe 220 volte il limite giornaliero dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare per l’assunzione di diossine clorurate.

Quindi, come trattarli? Il decreto legislativo 49/2014 in Italia ne regolamenta la filiera prevedendo la responsabilità dei produttori, dei distributori, dei Comuni e dei consumatori; ognuno ha il compito di garantire che la gestione dei rifiuti sia ecosostenibile. Nel marzo 2020 la Commissione europea ha presentato un nuovo piano d’azione per l’economia circolare, in linea con il Green deal europeo, con la priorità di ridurre i rifiuti e stimolare l’innovazione nel riutilizzo e nella riparazione, limitando lo smaltimento in discarica. Secondo gli ultimi dati riportati dal Centro di coordinamento Raee, l’organismo che ottimizza la gestione di questi rifiuti in Italia, nell’anno della pandemia la raccolta ha superato le 360.000 tonnellate, registrando una crescita del 6,35% rispetto al 2019, trainata soprattutto dalle regioni del Sud dell’Italia.

Se guardiamo ai principi che muovono l’economia circolare, i Raee rappresentano un’importante risorsa perché contengono materiali recuperabili di alto valore come oro, argento, rame e platino. Il Monitor delle Nazioni Unite li definisce una «miniera urbana» valutata 57 miliardi di dollari. E cosa può essere riciclato? «Dipende. I clorofluorocarburi si possono recuperare dai frigoriferi, il mercurio dalla retroilluminazione degli schermi piatti, il piombo dai tubi catodici nei televisori» spiega Pascal Leroy, direttore del Weee Forum, centro multinazionale per la gestione dei Raee. «Quest’anno il 14 ottobre l’International E-Waste Day si concentrerà proprio sulla possibilità che ognuno di noi ha nel rendere la circolarità una realtà per i prodotti elettronici. E nel far in modo che gli utenti siano consapevoli delle opzioni esistenti per le loro apparecchiature a fine vita».

Un esempio italiano di gestione dei rifiuti che segue una logica di sviluppo sostenibile e di massima efficienza è quello raccontato da Giancarlo Dezio, direttore generale del consorzio Ecolight: «Nel 2020 abbiamo smaltito oltre 25.000 tonnellate di rifiuti e abbiamo raggiunto anche il 96% del recupero delle materie prime e seconde. La corretta gestione inizia dalla conoscenza di come debbano essere trattati e alla distribuzione a impianti certificati».

Sul piano legislativo l’Italia si pone all’avanguardia per lo sviluppo delle attività e degli impianti nel recupero dei rifiuti in generale. Ma il problema è causato da un management illegale dei gestori: per ottenere un maggior guadagno trovano più conveniente acquisire i Raee – oltre che dai normali canali quali consorzi e pubbliche amministrazioni – anche dai privati cittadini per poi attestare falsamente al produttore del rifiuto l’avvenuto riciclo, e rivenderli come merci usate ai Paesi in via di sviluppo.

Solo il 17,4% degli scarti elettronici prodotti nel 2019 ha raggiunto la gestione formale o gli impianti di riciclaggio, il resto è stato scaricato illegalmente, prevalentemente nei Paesi a basso o medio reddito. «Una delle maggiori sfide da affrontare riguarda proprio il commercio internazionale illegale a basso costo, il cui potenziale profitto è enorme, invece di scegliere l’opzione ecologicamente più responsabile ma più costosa del riciclaggio con la rimozione dei materiali tossici» spiega il generale di brigata Maurizio Ferla, comandante dei Carabinieri per la Tutela ambientale e la transizione ecologica.

I traffici illegali d’interesse per l’Italia sono indirizzati soprattutto verso l’Est Europa, l’Africa occidentale, il Maghreb e il Sud Est asiatico. Si tratta di spedizioni transfrontaliere influenzate dalla carenza impiantistica nei Paesi industrializzati. L’ampio margine di impunità rispetto ad altri settori criminali garantisce una massimizzazione dei profitti. Così come incide la mancanza di controlli doganali tra i Paesi Ue: anche laddove ci siano, possono essere elusi pagando tangenti. Contribuiscono poi la disomogeneità tra le varie legislazioni e le rotte commerciali più convenienti per i costi di smaltimento.

Racconta ancora il generale Maurizio Ferla: «Con l’indagine del 2020 “Black sun” del Nucleo operativo ecologico di Perugia sul traffico illecito dei pannelli fotovoltaici, sono emersi soggetti e circa 60 società che hanno gestito illecitamente, dal 2014 al 2020, ingenti quantitativi di rifiuti elettrici e elettronici costituiti da pannelli fotovoltaici dismessi da impianti dislocati sul territorio nazionale. Un contesto criminale ben rodato che ha portato al sequestro di 6 mila tonnellate di rifiuti elettronici, destinati a essere rivenduti attraverso documentazione ingannevole nei Paesi africani ed asiatici».

A fronte di circa 100.000 pannelli, che l’organizzazione è riuscita a smaltire e esportare perlopiù in Africa, l’illecito profitto è stato di circa 6 milioni di euro. Ferla aggiunge: «Il profitto è nel rifiuto stesso. Il delitto ambientale non è un delitto fine a se stesso ma un mezzo». Il problema non è solo nello smaltimento, anche le aziende devono evitare di inquinare. «Serve la giusta dimensione tra gli oneri e i costi delle aziende e le problematiche che ci sono per rimanere concorrenziali sul mercato rispetto a un mercato internazionale dove i produttori non hanno nessuna legislazione ambientale. Non si può solo intervenire con la repressione».

È allora necessario un cambio di paradigma con un solido sistema di gestione e riciclaggio. Eventualmente con l’istituzione di premi o incentivi per migliorare la riutilizzabilità e la percentuale di materiale riciclato. O con la digitalizzazione dell’intero settore utilizzando la tecnologia dei QR-code per migliorare l’interazione tra gli attori coinvolti e la conoscenza sul prodotto, sui processi coinvolti nella sua produzione e sui suoi impatti.

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