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Fattore H: la sfida dell’idrogeno

Fattore H: la sfida dell’idrogeno

Potenzialmente è l’elemento dei miracoli: fornisce moltissima energia senza inquinare. Il grande tema è ricavarlo in modo «verde» e Cina e Usa corrono per arrivarci prima. Distaccando un’Europa troppo lenta.


Anche nella corsa all’idrogeno verde l’Europa rischia di vedersi superare da Stati Uniti e Cina. Pur con l’ambizione di diventare l’attore continentale più attento all’ambiente, l’Unione deve affrontare in questa competizione ostacoli esterni, come quelli geofisici, e auto-inflitti, come quelli legislativi, mentre i due grandi rivali marciano più spediti grazie ai loro spazi immensi e a leggi e incentivi più flessibili. Ma perché è importante l’idrogeno verde? L’idrogeno, l’elemento più leggero e più diffuso in tutto l’universo, ha un grande pregio: un enorme contenuto energetico, di almeno due-tre volte superiore a quello dei combustibili tradizionali. E quando viene utilizzato non produce anidride carbonica (CO2).

Allora perché questo meraviglioso elemento non è stato impiegato dall’uomo per alimentare le sue macchine e la rivoluzione industriale? Perché l’idrogeno ha un difetto: è sempre combinato con altri elementi e richiede molta energia per essere staccato dagli atomi cui è legato, come quelli di ossigeno con cui forma l’acqua (H2O) o di carbonio con cui forma il metano (CH4). Inoltre lo si trova anche nel carbone fossile. In pratica, non è una fonte primaria di energia come lo sono metano, petrolio o carbone, ma deve essere prodotto artificialmente usando fonti energetiche primarie. È un vettore energetico, un mezzo per immagazzinare e trasportare l’energia disponibile ove occorra. Oggi la stragrande maggioranza dell’idrogeno proviene da combustibili fossili ed è consumato principalmente nell’industria petrolchimica, per esempio per la sintesi dell’ammoniaca necessaria nei fertilizzanti, nei processi di raffinazione del petrolio o per la sintesi del metanolo. È quello che viene chiamato «idrogeno grigio».

Ci sarebbe invece un modo per produrre idrogeno senza bruciare gas o carbone ed eliminando la relativa CO2: con l’elettrolisi (cioè separando con l’elettricità gli atomi di ossigeno e di idrogeno dell’acqua dolce) alimentata da energia rinnovabile o dal nucleare. Si avrebbe così un carburante pulito ottenuto senza l’emissione di gas serra: l’idrogeno verde, la soluzione ideale per far funzionare i settori industriali che hanno bisogno di tanta energia. Ed è proprio in questa direzione che si stanno dirigendo molti Paesi.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) «l’idrogeno pulito, prodotto da fonti rinnovabili, nucleari o da combustibili fossili con cattura della CO2, può contribuire a decarbonizzare una serie di comparti, tra cui i trasporti a lungo raggio, i prodotti chimici, la siderurgia, dove è difficile ridurre le emissioni. L’idrogeno può anche contribuire a migliorare la qualità dell’aria nelle città e a migliorare la sicurezza energetica. L’idrogeno può anche sostenere l’integrazione delle fonti rinnovabili variabili nel sistema elettrico, essendo una delle poche opzioni per immagazzinare l’elettricità per giorni, settimane o mesi». Peccato però che i costi siano elevati e di conseguenza siano pochi gli impianti in fase di realizzazione: l’idrogeno verde attualmente ha un prezzo che oscilla da 3 a 8 euro al chilogrammo contro 1-2 euro per quello grigio. Così, come ricorda la Iea, «la domanda di idrogeno è in crescita, con segnali positivi nelle applicazioni chiave. Ma gran parte dell’aumento della richiesta di questa fonte d’energia nel 2021 è stata soddisfatta dall’idrogeno prodotto da combustibili fossili non ancora esauriti, il che significa che non c’è stato alcun beneficio per la mitigazione dei cambiamenti climatici. La produzione di quello a basse emissioni è stata inferiore a un milione di tonnellate, praticamente tutta proveniente da impianti che utilizzano combustibili fossili con cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio».

Nel 2021 la domanda di idrogeno era pari a 94 milioni di tonnellate e dovrebbe salire a 115 milioni nel 2030. E si prevede che quello verde diventerà competitivo sul mercato in circa un decennio. Con la transizione energetica globale, in tutto il mondo è partita la gara a chi annuncia più progetti per la produzione di idrogeno verde. Ma dall’annuncio alla realizzazione il passo è ancora lungo. «A fronte di un migliaio di grandi progetti annunciati, meno del 10 per cento ha superato l’approvazione finale dell’investimento» riferisce Antonio Antozzi, Director energy transition & hydrogen della multinazionale italiana De Nora, il più grande fornitore al mondo di elettrodi per i principali processi elettrochimici industriali. La società ha sviluppato un portafoglio di elettrodi e componenti per la produzione dell’idrogeno mediante l’elettrolisi dell’acqua, fondamentale per la transizione energetica, ed è presente praticamente ovunque si realizzino impianti di questo tipo.

«Per ora ciò che vediamo è la costruzione di impianti di idrogeno verde per alimentare settori di larga scala come il siderurgico e il chimico. Naturalmente sono sviluppati dove c’è più disponibilità di sole e vento: per esempio in Arabia Saudita è in costruzione il più grande impianto del mondo, da oltre due gigawatt di elettrolisi con tecnologia Thyssenkrupp Nucera, joint venture con De Nora, che servirà a produrre ammoniaca. Altri due vengono realizzati sempre da Nucera a Rotterdam, da 200 megawatt, e in Brasile, da 60 megawatt». Antozzi però rileva come l’apparato legislativo in Europa sia «scoraggiante» per chi vuole produrre idrogeno con l’energia rinnovabile, imponendogli vincoli che in Usa o Giappone sono meno pesanti. E negli Stati Uniti il settore può beneficiare dei crediti d’imposta previsti dall’Inflation reduction act (Ira) che valgono fino a 3 dollari per chilogrammo di idrogeno per i primi 10 anni di attività di un progetto.

L’Europa ha lanciato il piano Ipcei Hy2Use, che erogherà complessivamente fino a 5,2 miliardi di euro per favorire l’impiego di idrogeno rinnovabile e a basse emissioni di carbonio. E secondo un rapporto redatto dall’Hydrogen Council in collaborazione con McKinsey & Company, l’Europa detiene la leadership mondiale per i progetti annunciati: tuttavia solo una minoranza è arrivata all’approvazione finale, mentre negli Usa e in Cina la percentuale è più alta. Del resto, in uno studio della società di consulenza Pwc si legge che «i mercati di produzione più interessanti per l’idrogeno verde sono quelli con risorse rinnovabili abbondanti e a basso costo. In alcune zone del Medioriente, dell’Africa, della Russia, degli Stati Uniti e dell’Australia, per esempio, l’idrogeno verde potrebbe essere prodotto oggi a 3-5 euro al chilogrammo» contro i 3-8 euro dell’Europa.

In questo scenario l’Italia ha inserito nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), 3,2 miliardi di euro per la ricerca, la sperimentazione, la produzione e l’utilizzo di idrogeno. E alcune grandi aziende si stanno già muovendo: due progetti per lo sviluppo di idrogeno verde da parte di Enel Green Power ed Eni hanno ottenuto il supporto pubblico nell’ambito di Ipcey Hy2Use, uno all’interno della bioraffineria di Gela e l’altro nelle vicinanze della raffineria di Taranto. Ed è di poche settimane fa l’accordo firmato da Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, e da Sultan Ahmed Al Jaber, ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti, che prevede una serie di progetti congiunti compresi l’idrogeno blu e verde. Ma sulle ambizioni europee e soprattutto italiane riguardo all’idrogeno verde pesa un’incognita: per produrre questo fantastico vettore energetico pulito e senza CO2 serve una grande quantità di elettricità rinnovabile mentre noi siamo già in ritardo nella realizzazione di impianto eolici e fotovoltaici per alimentare i consumi normali del Paese.

Come rilevano i ricercatori del Cnr Nicola Armaroli e Andrea Barbieri, se l’Italia volesse realizzare gli obiettivi che si è data nel Pnrr, cioè usare l’idrogeno verde per sostituire quello grigio, per decarbonizzare l’industria siderurgica e per coprire il due per cento degli usi finali dell’energia (come trasporti e riscaldamento), dovrebbe utilizzare quasi un terzo della produzione italiana di elettricità. E dove la troviamo tutta questa energia sostenibile? È un rebus che non riguarda solo noi, ma tutti i Paesi più industrializzati. «Se da un lato la ricerca sull’idrogeno e la diffusione delle rinnovabili debbono continuare» scrivono Armaroli e Barbieri in un articolo pubblicato su Nature, «dall’altro è arrivato il momento, non solo per l’Italia ma per tutta l’Unione Europea, di prendere decisioni politiche sulle priorità per il prossimo decennio, e si deve fare una scelta chiara tra puntare principalmente sull’elettrificazione diretta o sulla produzione di idrogeno». Un bel dilemma.

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