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Gigafactory ovunque (tranne in Italia)

Gigafactory ovunque (tranne in Italia)

Con l’avvento della mobilità elettrica i produttori di batterie annunciano la costruzione a raffica di nuovi impianti in Europa. Un flusso di investimenti da cui il nostro Paese è tagliato fuori quasi del tutto. E che rischia di spingerci ai margini di un’industria che un tempo dominavamo e ora, «grazie» anche agli Agnelli, stiamo perdendo.


Ci superano tutti: Spagna, Francia, Germania, perfino l’Ungheria. Paesi che attirano fiotti di investimenti per la costruzione di impianti di batterie, le mitiche «gigafactory», cuore pulsante della nuova industria automobilistica. L’ultima novità riguarda il Paese iberico: secondo il quotidiano economico-finanziario Cinco Días la casa americana Tesla starebbe trattando con la Generalitat Valenciana l’apertura di una fabbrica dii batterie e di auto elettriche nell’area metropolitana di Valencia.Un’operazione da oltre 4,5 miliardi di euro che, se confermata, darebbe un ulteriore impulso ad una regione della Spagna fortemente impegnata nel settore dell’auto: ospiterà infatti anche uno stabilimento di batterie della Volkswagen e un impianto di vetture elettriche della Ford, che dovrebbero entrare in esercizio tra il 2025 e il 2026.

Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli annunci di nuovi investimenti in Europa. La svedese Northvolt ha confermato la costruzione di un impianto di batterie in Germania; la taiwanese ProLogium realizzerà una fabbrica nel nord della Francia, a Dunkerque; la cinese Eve Energy ne inaugurerà una in Ungheria per fornire la Bmw. I maggiori produttori cinesi di batterie stanno aprendo gigafactory in Germania, Gran Bretagna, Francia e Ungheria, quattro Paesi dove si concentra l’88 per cento degli investimenti diretti della Cina in Europa. Da questo grande flusso, destinato a creare migliaia di posti di lavoro, l’Italia è quasi del tutto tagliata fuori. A parte la gigafactory di Automotive Cells Company (Acc), joint-venture formata da Stellantis, Mercedes-Benz e Total, che entrerà in attività a Termoli nel 2026, e la scommessa di Italvolt dell’imprenditore svedese Lars Carlstrom a Termini Imerese, non c’è nient’altro.

Perché non riusciamo ad attirare i produttori di batterie e di auto elettriche? Intanto perché ormai contiamo sempre di meno nel mondo delle quattro ruote: se nel 2017 gli stabilimenti ex Fiat sfornavano più di un milione di vetture e furgoni, nel 2022 la produzione è scesa a 686 mila veicoli, di cui 486 mila automobili. Perfino la Romania ne costruisce di più: 509 mila. E naturalmente chi deve realizzare una fabbrica di batterie preferisce andare in Paesi come la Germania, dove si fabbricano 3,7 milioni di auto all’anno, oppure in Spagna (1,7 milioni), nella Repubblica Ceca (1,2 milioni), in Slovacchia (970 mila) o in Francia (950 mila).

Chi vuole impiantare uno stabilimento di auto elettriche di certo non sceglie un mercato come quello italiano, dove la quota delle vetture a batterie sul totale immatricolato è di appena il 3,2 per cento (dato di aprile) contro una media europea dell’11,8 per cento. E dove si continuano a dare incentivi anche ai veicoli con motore a combustione. Così saremo sempre più marginali in un’industria alla quale abbiamo dato marchi storici come Fiat, Alfa Romeo e Lancia. La politica gioca un ruolo importante in questo fallimento. Tradizionalmente all’Italia manca una strategia industriale di largo respiro e sull’auto questa carenza è imbarazzante. In Francia si muove lo stesso presidente Emmanuel Macron per attirare gli investimenti delle società produttrici di batterie mentre i nostri governi hanno mostrato un interesse distratto, lasciando che il baricentro di Stellantis guidato dalla coppia Carlos Tavares e John Elkann si spostasse a Parigi, trascurando le evoluzioni del settore verso la mobilità elettrica se non addirittura ostacolandola, senza mettere a punto un quadro preciso e stabile di incentivi per attrarre società straniere. Risultato: negli ultimi due anni settemila dipendenti delle fabbriche Stellantis nel nostro Paese hanno lasciato il posto di lavoro.

Ma quella dell’automobile è solo una delle industrie che rivelano lo scarso appeal dell’Italia sul fronte degli investimenti esteri. Come mostra il rapporto «Europe attractiveness survey» della società di consulenza Ey, pubblicato l’11 maggio scorso, la Francia è al primo posto per attrattività con 1.259 progetti di investimento nel 2022. Seguono Regno Unito con 929 progetti, Germania con 832, Spagna con 324. L’Italia è in settima posizione su dieci Paesi considerati (Turchia compresa) con 243 investimenti esteri annunciati. Particolarmente stridente è il confronto con la Spagna, che ha un’economia più piccola della nostra (1.427 miliardi di dollari di Pil nel 2021 contro 2.108 miliardi) eppure è diventata un gigante in alcuni settori, come appunto l’auto, ed è capace di attirare fiumi di investimenti. Perché? Secondo la guida Doing business della Banca mondiale, tra i punti di forza del Paese iberico spiccano la flessibilità e adattabilità degli operatori economici, una rete infrastrutturale sviluppata, un governo che persegue politiche di riforma. A cui va aggiunta una strategia vincente di incentivi. In un’indagine condotta dagli svizzeri dell’International institute for management development (Imd), la Spagna si è classificata al 36° posto in termini di competitività nel 2022, grazie alle sue infrastrutture e alla stabilità macroeconomica.

La Francia è messa ancora meglio, in 28esima posizione: come sottolineano i consulenti di Ey, Parigi «sta agendo su questioni fondamentali per garantire il successo della creazione di imprese sul suo territorio: terreni industriali pronti all’uso, un pool di talenti riconosciuti e il piano di investimenti Francia 2030, che sostiene la trasformazione dell’economia». Nella graduatoria dell’Imd l’Italia invece è al 41° gradino. Tra i principali ostacoli agli investimenti esteri (vedi riquadro qui sopra) ci sono: la lentezza dei processi amministrativi che rallentano in maniera sistematica il processo di avvio di un’impresa; il tasso di crescita del nostro Pil che fino agli anni passati era anemico; la corruzione estremanente diffusa; la produttività scarsa. Ma soprattutto l’instabilità politica, con i governi che si succedono uno dopo l’altro trasmettendo alle grandi multinazionali l’immagine di un Paese con un quadro fiscale, giudiziario e normativo debole e volatile. L’ultima dimostrazione arriva dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, che con il cambio dell’esecutivo è stata modificata la sua cabina di regia.

Proprio dal Pnrr potrebbe però arrivare se non la svolta decisiva, un sensibile miglioramento. «L’Italia non è mai stata in cima alla classifica dei Paesi più attrattivi per gli investimenti delle imprese estere, ma con il Pnrr abbiamo un’occasione storica per invertire questo trend e rendere più attrattivo tutto il nostro tessuto economico» ha dichiarato Fabio Pompei, ceo della società di consulenza Deloitte Central Mediterranean in occasione della presentazione dello studio «L’attrattività del sistema Italia per le imprese estere: opportunità e prospettive del Pnrr». Secondo Pompei «in un contesto come quello attuale, infatti, la tempestiva ed efficace implementazione del Piano rappresenta un’occasione irrinunciabile per dare impulso al nostro sistema produttivo e migliorare l’attrattività verso investimenti internazionali».

L’importante è che non emergano troppe inefficienze e ritardi nella realizzazione del Pnrr. Si tratta, come avverte l’Osservatorio sul Recovery Plan, promosso dall’Università Tor Vergata e da Promo Pa Fondazione, di una preoccupazione che in passato non era mai stata presa in considerazione, ma che ora viene vista come un rischio potenziale dagli investitori stranieri. Per il governo Meloni il Pnrr è una grande occasione per rendere il Paese più competitivo, efficiente, attrattivo. E magari per riportarlo tra i protagonisti dell’auto del futuro.

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