Il fotovoltaico, annunciato come la tecnologia «pulita» del futuro, in realtà ha dietro di sé una produzione, quasi tutta in Cina, assai più inquinante del previsto. Per non parlare dei problemi dello smaltimento. Ma chi lo rivela, dati alla mano, viene ignorato.
Pannelli solari superstar. Ce ne sono sui tetti delle case, su quelli delle Chiese, sui terreni agricoli. Secondo il rapporto Solare fotovoltaico in Italia, pubblicato dal Gestore dei servizi energetici, a inizio 2022 l’Italia vantava più di un milione di impianti fotovoltaici installati, con potenza complessiva pari a 22,6 GW. L’aumento rispetto al 2020 era del 4 per cento, per il 45 per cento al Nord, per il 37 al Sud e per il 18 nelle regioni centrali. E sempre nel 2022 ne sono stati installati 205.806 contro i 79.878 dell’anno prima.
Ma questa energia rinnovabile è davvero così green? «In realtà i pannelli solari rilasciano cinque volte più anidride carbonica di quanto si pensasse in precedenza» afferma Enrico Mariutti, autore del libro La decarbonizzazione felice (edito dal Sole24ore) e ricercatore in ambito clima-energia apprezzato anche dal quotidiano britannico Daily Mail. «Il problema è che non vengono letti correttamente i dati. Per calcolare le emissioni di carbonio, le istituzioni mondiali utilizzano un database che non contempla quelle della Cina, che produce il 90 per cento dei pannelli solari del globo. E per farli usa impianti a carbone. Quindi, quante emissioni di carbonio mancano dal calcolo globale dell’Ipcc, l’Intergovernmental panel on climate change?».
In parole povere: se si misurasse effettivamente il carbonio emesso dalle industrie cinesi, i pannelli solari alla fine non risulterebbero così ecologici. Nei primi anni 2000, spiega Mariutti a Panorama, la produzione era concentrata in Europa. «In quella fase era ben chiaro che questi dispositivi dovevano essere prodotti in modo etico, perché il cuore tecnologico del pannello è composto di silicio. Per purificare il silicio serve un mare di energia, e se questa era «sporca», ciò creava un problema dal punto di vista ecologico». Chi all’epoca produceva pannelli in Europa adoperava un mix energetico «low carbon»: il silicio veniva raffinato con energia elettrica ottenuta da centrali idroelettriche, mentre per i passaggi successivi, come l’assemblaggio, si impiegava l’alimentazione a gas. In più, poiché nel 2000 il fotovoltaico era un business nuovo, erano nuovi anche gli impianti di produzione; i dispositivi che trasformavano il calore in energia erano molto efficienti, con bassissimo impatto ambientale.
«Dal 2010 però» prosegue l’esperto «gli investimenti sull’energia fotovoltaica sono schizzati alle stelle e la fornitura dei pannelli è stata delocalizzata in Cina, dove i costi di produzione sono assai più bassi, visto che la fonte di alimentazione del loro ciclo industriale è l’energia a carbone, molto più economica. In più, in Cina le industrie strategiche ed energetiche sono sussidiate, fuori dalle regole di mercato. Possono andare anche in perdita, ciò che conta è azzerare la concorrenza».
L’Intergovernamental panel on climate change nel 2014 aveva annunciato al mondo che i pannelli solari erano l’energia del futuro, perché emettevano 40 grammi di anidride carbonica in un kilowattora. Per fare il paragone, l’energia a gas ne emette 400, quella a carbone dai 900 in su. Tutto molto bello, quindi. Se non fosse che le valutazioni dell’Ipcc sono superate, basate sul processo produttivo europeo con energia idroelettrica e a gas. Non su quello cinese.
«Il consenso scientifico si è formato sui dati di uno scenario industriale che non esiste più. Se ci fosse un’indagine federale seria, magari negli Stati Uniti, sul vero impatto ambientale dei pannelli solari, allora sì che si avrebbero di dati corretti e si muoverebbe qualcosa» afferma Mariutti.
Un altro aspetto da non sottovalutare riguarda lo smaltimento dei pannelli una volta usurati. A essere altamente inquinante, nel caso dei pannelli, non è soltanto la lavorazione ma anche la loro rottamazione.
«Al momento non è avvertito come un problema perché è tecnologia “fresca” e, più o meno, i pannelli installati funzionano tutti. Ma tra qualche anno, quando arriveranno al fine vita, dovranno essere riciclati e lì si tireranno le somme. Noi non abbiamo la capacità industriale per riciclarli. È costoso e altamente inquinante. Finiranno in discarica, dove quelli “a film sottile”, fatti col tellururo di cadmio, intossicheranno il suolo. Quelli “cristallini” invece verranno abbandonati da qualche parte perché smontarli e separare i materiali costa quasi quanto produrli. O forse verranno mandati in Africa, dove funzioneranno ancora qualche anno e poi, vista la manodopera a bassissimo costo, potrebbero essere smontati e riciclati. E comunque, sarebbe un problema loro. Risultato: finirebbero sempre in discarica, ma in un altro continente. Come le pale eoliche».
Per fare meglio, stiamo facendo peggio? «Va bene l’energia “green”, ciò che trovo folle è tirare fuori milioni di tonnellate di metalli per fare pannelli da usare vent’anni per poi buttarli in discarica».
Il dibattito sull’energia fotovoltaica ha finito per azzerare qualsiasi altra considerazione su fonti alternative. Ma non esistono solo il fotovoltaico o il carbone. Nei calcoli di Mariutti, un pannello cinese emette tra 160 e 250 grammi di CO2 kilowattora, mentre l’energia nucleare sta a meno di 10. Una centrale a gas con «carbon capture storage», uno speciale filtro sulla ciminiera, oscilla tra 50 e 100. Perché non prendere in considerazione queste due opzioni?
Per i suoi studi, Mariutti ha ricevuto apprezzamenti internazionali. Tranne che in Italia. «Mentre molti membri della comunità scientifica internazionale, come l’americano Seaver Wang del Breakthrough Institute, così come enti giapponesi, approvano le mie tesi, basate su dati pubblicati da Nature, in Italia niente di tutto ciò. Qui bisogna sempre e comunque difendere le rinnovabili. Nessuno ha contestato tecnicamente le mie affermazioni, ma ricevo insulti via social. Resta il fatto che stiamo mettendo in mano alle aziende cinesi i soldi dei contribuenti per risolvere un problema ben sapendo che non lo risolveranno. Una transizione “ecologica” fatta così è una truffa».